Paolo Crosa Lenz       Lepontica/4      Gennaio 2021

 

Sommario
1. Dante, Fra Dolcino e Gustavo Tavo Burat
2. Scoperte due nuove grotte in Val Grande
3. Bucare la Terra
4. Antrona, colonia walser?
5. I “nuovi alpinisti”
6. Alberto De Giuli (1940 – 2016)
7. Anna Bettineschi (1936 – 2020)

 


 

Uomini e idee

1.Dante, Fra Dolcino e Gustavo Tavo Burat

Nel settembre 1321 morì a Ravenna Dante Alighieri. Quest’anno ricorrono i 700 anni e saremo inondati di commemorazioni e celebrazioni, tutti avranno qualcosa da dire. Gioco d’anticipo. Cosa c’entra Dante con l’alto Piemonte, con le nostre terre? Il legame è con Fra Dolcino (fra sta per fratello, non per frate).
Dolcino da Novara (1250 [?] – 1307), la tradizione dice sia nato a Prato Sesia o in Val d’Ossola (dove rimane una leggendaria torre a Trontano). Fu un ribelle, animatore di un movimento pauperistico che si richiamava all’egualitarismo delle prime comunità cristiane.
La sua colpa più grande fu di non pagare le tasse al vescovo di Vercelli che gli scatenò contro un Crociata. Dopo una strenua resistenza prima alla Parete Calva in Valsesia e poi al Monte Rubello nel Biellese, fu arso sul rogo con la sua compagna, la bella Margherita.
Dante era di 15 anni più giovane di Dolcino e lo ricorda nel canto XVIII dell’Inferno (vv 55 – 60) quando nella nona bolgia incontra i “seminatori di discordie” e Maometto gli dice:
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Il “profetico” Dante aveva capito che Dolcino sarebbe stato preso per fame. Così avvenne.
Il primo a parlarmi di Fra Dolcino fu Gustavo Tavo Burat (1932 – 2009). Lui, biellese e valdese (non è la stessa cosa!), faceva il mio stesso lavoro, l’insegnante.

Venne a trovarmi ad Ornavasso in una luminosa giornata di novembre del 1985, parlammo a lungo sul balcone, con i laghi lontani e i Corni di Nibbio imponenti. Parlammo di utopie libertarie e di minoranze linguistiche.
Mi raccontò che nel 1907 il socialista biellese Emanuele Sella fece costruire un monumento alto dodici metri in memoria di Dolcino e che nel 1927 i fascisti lo distrussero.
Lui lo ricostruì e all’inaugurazione vennero Dario Fo (che ne parlò nel Mistero Buffo) e Franca Rame. Erano gli anni in cui i Walser dovevano ancora essere “scoperti” e urgeva difendere le minoranze linguistiche.
Il Tavo era uno spirito puro e libero, difensore delle autonomie locali e delle culture minoritarie. Ci lasciammo. Io mi buttai a studiare i Walser, lui aveva già fondato nel 1974 a Biella il Centro di Studi Dolciniani (che c’è ancora), poi andò a Roma a fondare la Federazione dei Verdi (che non c’è più).
Lo incontrai anni dopo, a Biella, al convegno di fondazione di Mountain Wilderness.
Ci abbracciammo.


 

Speleologia

2. Scoperte due nuove grotte in Val Grande

Sono state scoperte due nuove brevi grotte in Val Grande, una nei filoni di marmo, l’altra nello gneiss. Entrambe si aprono a monte di Velina, storico corte caricato dai contadini di Rovegro e uno degli ultimi ad essere abbandonato. La prima, “Grotta sul Sentiero” (tra Cicogna e Velina) è lunga 17 m; la seconda, “Bus del Luf” (toponimo tornato di moda!) è lunga 6 m. In sé niente di imponente, ma significativo di come la ricerca speleologica nella nostra terra (basata sull’esplorazione, ma anche sul recupero di antiche memorie) non è conclusa. Ne dà notizia il n° 38/2019 di “Labirinti”, prezioso bollettino del Gruppo Grotte del CAI Novara che, da quarant’anni, promuove la ricerca ipogea nella nostra terra (e non solo!). Un’altra volta vi parlerò delle grandi grotte naturali dell’Ossola e delle “nuove” grotte subglaciali. L’amico Gian Domenico Cella, esploratore e grande animatore della speleologia novarese, fu tra i protagonisti della scoperta della “Ca’ d’la Cusc”, la più importante grotta in Val Grande. È una grotta “grande”: un salone alto otto metri e lungo sessanta con uno sviluppo di 624 m e con un dislivello di 86 m (+ 40 m; – 46 m). Una scritta alla base del pozzo datata 4.7.1934 indica che le parti interne della grotta erano note, almeno parzialmente, già negli anni ‘30. Alcune forme di concrezionamento creano uno tra gli ambienti sotterranei più belli dell’Alto Piemonte. Quando fu scoperta negli anni ‘90 Gian Domenico Cella venne a trovarmi per raccontarmi e per costruire un rapporto di condivisione con il neonato Parco Nazionale (allora era presidente Franca Olmi). Lo scopo era quello di assicurare la possibilità della ricerca scientifica ed esplorativa nel rispetto della legalità e dall’altro di evitare utilizzi speculativi dei pirati di turno. Nel primo caso riuscimmo pienamente, nel secondo solo in parte. Tra il 2002 e il 2004 il Parco Val Grande affidò al GGN il censimento delle cavità ipogee che permise il rilievo di quattordici grotte note nel bacino della Val Grande e aree perimetrali. La ricerca permise la scoperta di alcune nuove cavità nelle aree di Piano del Sale e negli alpeggi di Scaredi, Corte Chiuso, Belmello. La più lunga di esse è quella, lunga 50 m, nei marmi bianchi del Lago del Marmo in alta Val Loana.

 


 

Scienza

3.Bucare la Terra

Dovrebbe iniziare a breve in Bassa Ossola l’attuazione del progetto scientifico di perforazione profonda della crosta terrestre. Un’avventura scientifica mai tentata prima. Il primo chilometro di perforazione avverrà nei comuni di Pieve Vergonte e Ornavasso. Poi ne rimarranno altri. Perché qui e non altrove? Non è certo merito degli ossolani, né dei politici locali se il mondo delle Scienze della Terra guarda dalle nostre parti. Dal punto di vista geologico ci troviamo all’interno del Geoparco Sesia Val Grande, istituito nel 2013 e parte dalla Rete Europea dei Geoparchi UNESCO.
L’importanza geologica di quest’area è legata ai processi di formazione delle Alpi, che hanno deformato la crosta terrestre tanto da farne emergere le parti più profonde. L’affioramento di queste rocce, che normalmente si trovano a decine di chilometri di profondità, ha permesso a studiosi provenienti da tutto il mondo di incrementare le conoscenze sulla struttura interna della Terra. Qui si trova infatti uno dei pochi luoghi al mondo dove affiora la crosta continentale profonda, quindi agevole da “bucare” per raggiungere la Moho, che separa la crosta dal mantello. La regione viene considerata un archivio geologico unico. Il progetto (“DIVE – ICDP”) è internazionale e coinvolge il nostro CNR, quattordici università del mondo, la NASA e lo Smithsonian Institute. ICDP è un ente scientifico con sede a Potsdam in Germania che si occupa di perforazioni profonde.
Leggo in una relazione di progetto: “La Zona di Ivrea-Verbano rappresenta l’unica nicchia del mondo nella quale la zona basale e profonda della crosta continentale è in parte esposta e in parte situata a basse profondità. Una serie di perforazioni scientifiche fino a un massimo di 4 km di profondità, unita alle informazioni disponibili dagli affioramenti in superficie, permetterebbe di ottenere il primo spettro completo della crosta continentale profonda e le sue relazioni con il mantello terrestre”.
Uno sguardo divertito su temi così complessi e affascinanti mi permette di considerare che la Val d’Ossola non è nuova a questi “buchi”.
Agli inizi del Novecento fu bucato il Monte Leone per venti chilometri (la Val Divedro divenne “la val dul bòcc”). Ma il buco era in orizzontale, per farvi passare il treno, mentre questo è in verticale per capire come è fatta la Terra!


 

Storia

4. Antrona colonia walser

Nella storiografia tradizionale (Bertamini 2007) Antrona era considerata l’anello mancante della “guardia tedesca del Monte Rosa”, attorno alla seconda grande montagna d’Europa l’unica comunità a non avere origini walser. Un’anomalia storica. La recente ricerca storica (Rizzi 2020) rilegge i documenti più antichi (XI – XIII secolo) che riconoscono come l’alpe di Antrona sia diventato insediamento stabile nei secoli immediatamente successivi in un processo di passaggio da alpeggio temporaneo a villaggio stanziale che hai uniformemente coinvolto tutte le testate della valli alpine attorno a “grande” Monte Rosa (così a Macugnaga, Campello Monti, Rimella, …).

“Tutto induce a concludere che le valli orientali del Rosa siano state lo scenario unico di una contemporanea vicenda di trasformazione di alpi in insediamenti permanenti, secondo il più classico dei modelli walser. E che di questa trasformazione, negli anni 1255-1260, ad Antrona come a Macugnaga, sia stato protagonista quel Guidotto Visconti di Massino che dovremmo quindi storicamente considerare il vero artefice della colonizzazione walser nelle valli ossolane del monte Rosa”.

Nei secoli lontani dell’Alto Medioevo apparteneva all’abbazia di San Gallo passato poi a quella benedettina di Massino, l’alpe di Antrona divenne insediamento colonico dei walser di Saas, come tanti residui etnografici e antropologici paiono confermare. La ricerca storico-documentaria pare confermare le origini walser di Antrona e scioglie il nodo di un comune modello insediativo d’alpeggio con le altre “comunità d’alpe” attorno al Monte Rosa. Questa dell’alpe walser di Antrona è una delle ultime acquisizioni della ricerca storica sul popolamento alpino contenute nel libro di Enrico Rizzi “i Walser e le Alpi – ultimi studi” (Fondazione Monti – Grossi Edizioni, dicembre 2020). “Ultimi” questi studi perché vengono dopo quarant’anni di ricerche e 175 saggi pubblicati sui Walser. Nel libro (affascinante perché conferma con onestà come le conoscenze storiche non sempre hanno certezze assolute, ma evolvono con il proseguire della ricerca) sono presentate anche nuove teorie: una possibile lontana origine scandinava (e non alemanna) dei Walser, una loro presenza nel massiccio del Monte Bianco, la fondazione walser di Livigno (il “Tibet delle Alpi”) e molto altro. 

 

 

 


 

Montagna

5. I nuovi alpinisti

Ho passato la vita sulle montagne. Ho capito una cosa. In montagna si va quando si è felici (con gli altri in prolungate scorribande vocali); si va da soli quando bisogna fare qualche conto con se stessi (“Un uomo solo e un vecchio cane / vanno nel meriggio alla campagna …”); si va in due quando bisogna fare pace. Gli alti monti coperti di nevi (sempre meno “eterne”) ricordano Dino Buzzati:

“Altri sono giunti da lontano e hanno conosciuto le strade della pianura. Ma ormai le hanno dimenticate, le vie infinite e polverose, bruciate dal sole. Laggiù non c’era ombra né vento e rare erano le fontane.”

Nel Verbano Cusio Ossola (mai nome di Provincia fu più sfortunato!) in pochi chilometri in linea d’aria si passa dalla dolce armonia dei laghi prealpini (il Lago Maggiore, d’Orta e di Mergozzo) alle severe solitudini del Monte Rosa, la seconda montagna d’Europa. Un luogo unico in Italia. Una delle realtà dell’Italia di oggi è che siamo un paese di vecchi che sono ancora giovani. Un tempo si andava in montagna la domenica e sotto l’egida del CAI che organizzava le gite. Oggi, sempre più, gruppi informali e svincolati dalle associazioni alpinistiche, frequentano le montagne tutti i giorni della settimana e tutte le stagioni dell’anno. Hanno nomi stravaganti: i Trotapian, i Murmata, i Winiwoni, Cui dal giobia, The lions on wednesday, ecc. È una fantasia bella! Questo grazie a pensionamenti giovani (oggi un sogno del passato!), per qualcuno grazie alla crisi, per tutti grazie ad una cultura nuova che vede nella frequentazione della montagna un’occasione per costruire buoni rapporti di amicizia e di solidarietà che vanno oltre il tempo e lo spazio dell’escursione. Questo prima e speriamo dopo il coronavirus. Questi “nuovi alpinisti” non sono gente che va in giro con gli occhi bendati. Cambia la società e cambia la montagna. Non sempre in bene. Spesso hanno uno sguardo critico su un “nuovo” uso del territorio e sui problemi che esso pone: il proliferare di strade pagate con soldi pubblici e usate privatamente, la menzogna delle “piste agro pastorali” (in realtà accessi a seconde case), torrenti e ruscelli sempre più asciutti indice di un bene pubblico (l’acqua) che produce enormi profitti privati. Un mio amico caro ha scritto un libro (Gianpaolo Fabbri, Verbano Cusio Ossola con lo zaino in spalla – 237 escursioni sulle Alpi Occidentali, Grossi, Domodossola, 2020) che invita a camminare. Pensate: andando in montagna almeno una volta la settimana (ma vi auguro di più!) ci vogliono quattro anni per fare tutte le gite. Al fondo c’è un’idea che condivido. La montagna è una natura amica e, per dirla con le parole del grande vecchio Mario Rigoni Stern, “un mondo da (ri)conquistare per vivere meglio”. Anche un mondo da difendere da nuovi pirati e speculatori. Nelle parole su carta di Gianpaolo Fabbri c’è anche questo: scalare le montagne non è solo momento ludico, ma anche libera scelta di impegno sociale, capacità di denuncia del male che sta accadendo sui nostri monti e coraggio di presa di posizione. È scomodo farlo, comodo non farlo. C’è un’immagine straordinaria e simbolica in questo libro. È quella di uno stambecco solitario con un corno solo, fotografato sugli strapiombi sotto la vetta della Punta d’Aurona all’alpe Veglia. Quel corno rotto forse è stato spezzato nelle feroci lotte per l’affermazione del capo branco e la conquista del diritto all’accoppiamento durante la stagione degli amori. Un inno alla vita. 

 


 

Personaggi

6. Alberto De Giuli (1940 – 2016)

“La vita è una cosa strana.
Quando servi, in tanti ti sono vicini,
come le mosche sul miele.
Quando sei malato o non servi più, ti trovi solo.”
Mi diceva così Alberto De Giuli, il padre della ricerca archeologica nell’Alto Novarese nella seconda metà del Novecento.
Non era un professionista né un accademico (faceva l’odontotecnico), carattere forte e poco incline al compromesso, aveva un istinto speciale per ciò che c’era “sotto terra”.
Larga parte dei ritrovamenti archeologici della nostra terra si devono al suo lavoro. Non bastava tuttavia “trovare”, occorreva conservare, esporre e raccontare.
Così Alberto nel 1969, in tempi in cui in Italia altre battaglie venivano combattute, fondò il GAM (Gruppo Archeologico Mergozzo) e organizzò un Antiquarium, al tempo l’unico visitabile nel VCO, che poi diventò Museo civico.
Le sue ricerche confluirono in molte pubblicazioni (una sua bibliografia mi risulta non sia ancora stata compilata). Nel 1978 aveva promosso il volume pionieristico “Ossola di pietra nei secoli”.
Con l’editore Grossi di Domodossola pubblicò nel 1997 “Sentieri antichi” (con Fabio Copiatti), un viaggio “a piedi” nell’archeologia ossolana, e nel 2003 “Incisioni rupestri nel Verbano Cusio Ossola” (sempre con Copiatti), un censimento delle “scritte” su pietra.
Il suo monumento scientifico, di uso quotidiano per chi si occupa di storia antica, è tuttavia “Archeologia dell’Alto Novarese” (con Pierangelo Caramella), scritto nel 1993 come repertorio di quanto scoperto fino ad allora (luogo per luogo, necropoli per necropoli, tomba per tomba) nella nostra terra.

Non operò solo qui, ma fece ricerche sulla “strada romana” della Valle d’Aosta e studiò i “Massi di Cemmo” in Val Camonica con l’amico Ausilio Priuli. L’ultimo suo capolavoro fu il riconoscimento dell’enorme valore scientifico della “Balma dei Cervi” in Valle Antigorio (la definizione è sua, da vecchio cacciatore).
La sua pubblicazione su “Oscellana” provocò le ire della Soprintendenza.
Da giovane ebbi accesi contrasti con lui su ipotesi interpretative (le coppelle, il megalitismo, …). Poi, come a volte accade tra uomini di studio, diventammo amici. Negli ultimi anni, affetto dal parkinson, veniva a trovarmi e lo ascoltavo a lungo. Nel 2014 gli presentai l’ultimo suo libro sulle frazioni di Mergozzo lungo la valle del Toce. L’anno prima aveva pubblicato “La storia del Monte Orfano e del borgo di San Giovanni”.
Debilitato dalla malattia, nel gennaio 2016 decise di non soffrire più. Lo capisco! Lo ricordo qui (dopo cinque anni), con rispetto per quanto (ed è tanto!) ha dato alla nostra terra, augurandomi che altri lo facciano.
Dopo la sua morte fu avanzata la proposta di intitolare a lui (che l’aveva creato) il Civico Museo Archeologico di Mergozzo.
Ad ora è lettera morta.


 

Personaggi

7. Anna Bettineschi (1936 – 2020)

I musei sulla civiltà contadina delle Alpi sono tanti e più o meno tutti uguali.
Gli strumenti per lavorare la lana, quelli per fare il formaggio, quelli per raccogliere il fieno… ne hai visti quattro e li hai visti tutti.
A fare la differenza sono le persone che li aprono e li chiudono, che raccontano cosa c’è dentro.
Il più delle volte non lo fanno perché sono pagati, lo fanno per orgoglio e per passione.
La Casa Museo Walser di Macugnaga (Alts Walserhüüs van zer Burfuggu) è bella e mi è molto cara. Per decenni ne è stata custode Anna Bettineschi che, nei primi anni ’80, accolse un giovane studioso e gli dedicò intere giornate descrivendogli con commozione ogni singolo oggetto. Anna Nava non era di Macugnaga, veniva da Vigevano (nebbia d’inverno e zanzare d’estate), si era stabilita a Macugnaga per matrimonio con Luciano Bettineschi (il “gatto del Rosa”, una delle più grandi guide alpine della seconda metà del Novecento). Era stata una brava alpinista: aveva scalato la Cresta Signal ed era socia del Club dei 4000, l’esclusivo club a cui sono ammessi solo coloro che hanno scalato la parete est del Monte Rosa.
Si era con forza e fatica inserita nella comunità, facendone proprie le tradizioni ed il racconto della civiltà. Diventammo amici e a lei portai giovani (le scuole della Val d’Ossola) e vecchi (gli “studenti” dell’Unitre).
In giornate d’autunno, quando i visitatori se ne erano andati, parlavamo anche di noi (Anna aveva vent’anni più di me).
Un giorno le chiesi cosa l’avesse spinta a venire a Macugnaga, in una comunità così chiusa e difficile. Alzò non una, ma due mani al cielo e guardò la grande montagna.
Ci accomunava una cosa poco eroica e molto umana: entrambi eravamo “orbi come talpe”; lei con occhiali spessi come fondi di bottiglia ed io con lenti a contatto non sempre pulite.
Ma il Monte Rosa è talmente grande che lo vedevamo bene. Ci accomunava un’altra passione: il ciclismo; lei passava i pomeriggi incollata al televisore e non perdeva una corsa.
Come altri, la “Anna di Macugnaga” (come era conosciuta con stima ed affetto tra i Walser dell’Ossola e non solo) contribuì alla fertilità di tanti studi. Mi dicono sia morta all’ospedale di Domodossola per crisi cardiaca.
Gli ultimi tempi visse sola, ma la sua memoria appartiene a tutti.