Paolo Crosa Lenz       Lepontica/10      Luglio 2021

 

Sommario
1. Le fioriture del Sempione
2. I fiori di San Giovanni
3. I Walser: Alemanni o “uomini del nord”?
4. Giugno 1944: memoria della Val Grande
5. CAI Baveno: i vent’anni di “Monte Zughero”
6. I 130 anni del rifugio “E. Sella” sul Monte Rosa
7. Il compagno Andrea

 


 

Natura

1. Le fioriture del Sempione

Sulle Alpi Pennine e Lepontine sono esplose in questi giorni le fioriture estive. Quest’estate un po’ in ritardo perché a metà giugno, oltre i 2000 m c’era ancora molta neve.
È meraviglioso come in una decina di giorni la montagna cambi volto: dal bianco uniforme ad una policromia esplosiva. Nella mia terra, la Valle del Sempione (politicamente è Svizzera, ma per la natura è Italia: il versante meridionale delle Alpi) offre facili itinerari alla scoperta delle fioriture.
Si cammina su buoni sentieri ben segnalati dove gli occhi si stupiscono dei mille colori di una montagna di nuovo rinata: dal bianco dei gigli alle macchie rosse dei rododendri che ancora devono infuocare le praterie, dai gialli delle arniche ai blu coraggiosi delle genziane, alle mille sfumature di fiori di cui non conosco il nome.
L’itinerario principale è la Stockalperweg che da Gondo porta al valico del Sempione e poi scende a Briga.

Da Egga, poco oltre Simplon Dorf, un buon sentiero ripido sale all’alpe Stelli (i prati da sfalcio abbandonati sono imbiancati dai gigli) per poi traversare in quota e scendere ad Engiloch da dove, sulla Stockalperweg si torna ad Egga (400 m di dislivello, ore 2,30).
Kaspar Jodok Stockalper fu un mercante di origini italiane (parlava cinque lingue, quindi nessuno poteva fregarlo!) che nel XVII secolo fece costruire una carovaniera a pedaggio per importare in regime di monopolio il sale marino da Genova.
Chi sale in auto al Sempione non vede le gole di Gondo perché la strada corre tutta in galleria o sotto paravalanghe.
Solo il sentiero offre lo stupore di un “orrido” che ha permeato la letteratura di viaggio dell’Ottocento.
Quando, nel 1805, fu aperta la “strada” del Sempione (fu la prima carrozzabile” che permise di superare le Alpi senza camminare), il francese Betencourt (ufficiale dell’esercito che aveva diretto i lavori realizzati con sangue, sudore e soldi italiani), mandò un dispaccio a Napoleone: “Generale, le Alpi non esistono più!”.


 

Montagna

2. I fiori di San Giovanni

L’alpe Veglia, sulle Lepontine occidentali, è forse uno dei più grandi alpeggi delle Alpi. Negli anni ’70 del Novecento avrebbe dovuto scomparire sommerso da un grande invaso idroelettrico, ma si salvò e divenne il primo parco naturale del Piemonte nel 1978. Veglia è un luogo meraviglioso che racconta storia e natura delle Alpi. Al centro del Vaccareccio (il grande pascolo pianeggiante al centro dell’alpe) si ergono larici monumentali che hanno più di 500 anni. Sono un simbolo di tenacia e di resistenza.
Per le comunità di Varzo e Trasquera, Veglia non aveva neanche un nome: era l’alp e basta, l’alpeggio per definizione, fonte di vita e di identità culturale.
Tutti gli altri alpeggi della valle avevano un nome, Veglia nel dvarun (il dialetto della Val Divedro) no. La salita a Veglia era regolata dagli Statuti del 1321 e cadenzata sulle feste religiose. L’inalpamento (caria nel dialetto locale) avveniva non prima del 24 giugno (festa di S. Giovanni Battista) e lo scarico dell’alpe, la scaria, il 24 agosto (festa di S. Bartolomeo).
All’alba del 24 giugno le mandrie iniziavano la salita dell’erto pendio del Groppallo ed era vanto di ogni famiglia raggiungere per primi la portea che segna l’ingresso all’alpe. Si ripeteva quel giorno, da tempi antichissimi, la cerimonia della benedizione dei “fiori di S. Giovanni”. Ne scrive Tullio Bertamini:
“Consistevano questi in un mazzetto di erbe e fiori dei prati che, dopo la benedizione, venivano portati all’alpe e mescolati alla pastura del bestiame o anche tenuti nelle casere e bruciati sulla porta della baita o della stalla nell’avvicinarsi del temporale, né più né meno come si faceva per l’olivo benedetto in tutti gli altri paesi.
Era dunque con un atto religioso che si iniziava l’alpeggio.” L’oratorio di San Giacomo in Veglia (costruito tra il 1621 e il 1634) si trova in posizione isolata all’ingresso del pascolo, di fronte a Cianciavero. Vi venivano celebrate quattro messe cantate l’anno e da esso partivano le Rogazioni, le processioni che percorrevano l’alpeggio per propiziare la crescita dell’erba e la salute di uomini e mandrie.
Il 25 luglio l’intensa vita d’alpeggio rallentava perché salivano i parroci di Varzo a raccogliere le “decime” loro spettanti e consistenti in “cento libbre di formaggio per ciascuno di essi nella festa di S. Giacomo, cioè il formaggio che si fa con il latte di un giorno prodotto dalle bestie dei parrocchiani, e viene dato ai parroci nel detto giorno di S. Giacomo.”
Nel XVII secolo vivevano in Veglia, durante i due mesi e mezzo di alpeggio estivo, circa 150 persone. Una piccola comunità di uomini dispersa fra il verde e le rocce di quelle montagne. Era comunque una comunità d’alpeggio numerosa, quasi sicuramente la più consistente dell’Ossola.

 


 

Storia

3. I Walser: Alemanni o “uomini del nord”?

Dal Goms (“altissimo” Vallese) un piccolo popolo, nel XIII-XIV secolo, andò a colonizzare le alte valli dell’Europa Alpina. Bontà delle migrazioni.
Il Goms fu un “laboratorio di civiltà” dove, gli uomini, per la prima volta nella storia, impararono a vivere tutto l’anno sopra i mille metri di quota.
Fu un’impresa epica mai tentata da altri, un mestiere imparato per prova ed errore. La moderna ricerca storica ripropone una domanda antica in termini nuovi: da dove venivano quegli uomini che da Walliser (vallesani) divennero Walser (coloni migranti).
La storiografia svizzera (Paul Zinsli, Hans Kreis) li riconobbe Alemanni: un popolo germanico che, nella diaspora conseguente alla caduta dell’Impero Romano (Goti, Visigoti, Burgundi, Borgognoni, …) si stanziarono in Vallese, a nord delle Alpi.
A nord, perché a sud c’erano già altri popoli. In anni recenti la ricerca storica italiana (Gilardino, Rizzi) ipotizza un’origine scandinava a partire dall’VIII-XIX secolo, un periodo climaticamente molto freddo che indusse i popoli stanziati a spostarsi a sud. I Vichinghi, con le loro lunghe navi adatte alla navigazione dei fiumi, arrivarono fino in Sicilia e divennero Normanni.
Uomini d’acqua “naufragati” sulle Alpi? L’ipotesi non modifica per nulla il quadro di civiltà delineato negli ultimi quarant’anni, ma pone l’enigma delle origini in termini nuovi. Nel 1981 l’amico Enrico Rizzi pubblicò “Walser. Gli uomini delle montagne – die Besiedler des Gebirges” nel quale per la prima volta sganciò gli studi dalle tradizioni leggendarie per ancorarli ai documenti storici.
Nel 2020 Enrico Rizzi pubblica “I Walser e le Alpi – ultimi studi” nel quale pone in termini nuovi il problema delle origini.
L’ipotesi dei Walser come “uomini del nord” si basa su varianti linguistiche e sull’uso dell’alfabeto runico, oltre ad una riconsiderazione generale degli spostamenti di popoli nell’Alto Medioevo.
Trovare ulteriori conferme a questa ipotesi affascinante è la sfida che attende le nuove generazioni di storici delle Alpi.

 

 


 

Storia

4. Giugno 1944: memoria della Val Grande

Il rastrellamento della Val Grande, un vasto territorio alpino tra il Verbano e l’Ossola, rimane ancora oggi impresso nella memoria storica delle popolazioni locali come uno degli eventi più tragici della Resistenza.
Dall’11 giugno al 1° luglio 1944 l’operazione, coordinata dal comando SS di Monza, tese ad annientare la formazione partigiana attestata nella zona: il Valdossola di Dionigi Superti, coinvolgendo anche la Cesare Battisti e la Giovane Italia.
Per venti giorni parecchie migliaia di soldati tedeschi e fascisti (con l’appoggio di aerei, blindati e artiglieria pesante) braccarono circa 500 partigiani, molti dei quali disarmati.
Il rastrellamento vide atti di estrema ferocia da parte dei reparti speciali antiguerriglia delle SS con torture, fucilazioni sommarie di civili, partigiani gettati vivi dai dirupi.
Alla fine del rastrellamento si contarono circa 300 partigiani morti, 208 baite e stalle incendiate in Val Grande e Val Pogallo;
50 case danneggiate o distrutte dai bombardamenti a Cicogna.
Dopo il rastrellamento, il comandante Mario Muneghina si stacca dalla “Valdossola” e costituisce la brigata garibaldina Valgrande Martire.
Vittime del rastrellamento non furono solo le formazioni partigiane, ma anche pastori e alpigiani, perfino un bambino di 12 anni, che pagarono con la vita e la distruzione di stalle e alpeggi l’appoggio dato alla Resistenza.
Oggi i monti della Val Grande sono tutelati come Parco Nazionale, l’area wilderness più grande delle Alpi.
L’amico Tiziano Maioli, con i ragazzi della sua “Cooperativa Valgrande” da 23 anni conduce, in collaborazione con la “Casa della Resistenza” di Fondotoce, un trekking che ripercorre i luoghi del rastrellamento.
È intitolato a Nino Chiovini (1923 – 1991), il partigiano Peppo della Giovane Italia, nel dopoguerra storico della Resistenza e della civiltà contadina sui monti del Verbano.
Un cammino sui sentieri della memoria e della libertà.


 

Montagna

5. CAI Baveno: i vent’anni di “Monte Zughero”

La sezione di Baveno del Club Alpino Italiano nasce nel 1946, sulle sponde del Golfo Borromeo del Lago Maggiore. Nasce da uomini di lago che guardano alle montagne: le Alpi come terra di una nuova libertà.
Accade in molte regioni d’Italia: l’alpinismo come rinascita ideale e sociale. Quella di Baveno è una “piccola” sezione, come tante in Italia, ma un anello forte di un nuovo tessuto connettivo che ha permesso al nostro paese di diventare l’Italia di oggi.
La sezione ha una baita sociale all’Alpe Nuovo (il 2 giugno, festa della Repubblica, è festa). In anni recenti la sezione ha promosso la realizzazione di due vie ferrate sul Monte Camoscio: la “Picasass” (questa è terra di scalpellini e cavatori di granito) e la “Miccia” (salita per gente tosta). Si arrampica dodici mesi l’anno con alle spalle l’Isola Bella.
Dei molti amici del CAI Baveno ricordo lo storico presidente Franco Movalli (medico e alpinista che incontrai molti anni fa sul ghiacciaio dell’Aletsch in Vallese di ritorno sotto la pioggia da una scalata fallita) e Giorgio Cittadin (storico redattore della rivista sezionale).
Ricordo anche Roberto Garboli, che guida con entusiasmo giovanile la sezione da quindici anni, ha sempre operato per l’alpinismo giovanile e nel 2000 è stato tra i fondatori della rivista sezionale “Monte Zughero”.
È qui occasione di ricordare i vent’anni di edizione della rivista. Lo Zughero (1230 m, ma sono mille metri di dislivello dal Lago Maggiore) è un monte tra due laghi: quello d’Orta e il Lago Maggiore. Una “terra di mezzo”.
Le riviste sezionali del CAI (a parte quelle patinate delle grandi sezioni cittadine) sono pubblicazioni semplici realizzate una volta l’anno da redattori volontari, generosi
e appassionati.
Mi dice l’amico Giorgio Cittadin: “Noi dobbiamo fare informazione (le attività della sezione), ma anche formazione (spiegare i valori della montagna e dell’alpinismo)”.
Un grazie a tutti i redattori, umili e “nascosti”, di tutte le riviste sezionali del CAI in Italia. Anche per loro sono orgoglioso di essere “uomo CAI”.


 


 

Alpininsmo

6. I 130 anni del rifugio “E. Sella” sul Monte Rosa

Nel 1886 l’alpinista valsesiano Angelo Rizzetti compie la traversata da Macugnaga a Zermatt. Scrive: “Ebbi l’occasione di passare il nuovo Weissthor partendo da Macugnaga. Scrivo queste righe per incoraggiare i mezzo-alpinisti, i neofiti le signore e… signorine a scegliere questa gita alpina tra le più interessanti e incomparabilmente maestose per fare i loro passi nell’alpinismo brillante.
Essa non offre né difficolta né pericoli e per qualche fatica che richiede, porge un compenso di bellezze inestimabili”. Un’escursione di quattordici ore (più altre due per scendere a Zermatt). L’itinerario richiede un punto d’appoggio. Lo storico rifugio “Eugenio Sella” compie 130 anni e torna a nuova vita.
Acquisito recentemente in proprietà dalla sezione CAI di Macugnaga che l’ha acquistato dal CAI-SEO Domodossola, è stato ristrutturato ed adibito a ricovero sempre aperto a disposizione di un alpinismo nuovo che troverà nuovi spazi di avventura e contemplazione su un Monte Rosa che sta profondamente modificando il suo volto per effetto dei cambiamenti climatici.
Proprio questo rifugio che, con il “Marinelli” ha fatto la storia dell’alpinismo sul versante orientale del Monte Rosa, è emblematico del tenace legame tra Macugnaga e la grande montagna. Numerosi eventi valanghivi e franosi (1955, 1964, 1978) danneggiano il rifugio che viene sempre ricostruito.
Nel 1970 il CAI SEO Domodossola firmò un contratto novennale con la sezione di Macugnaga, per l’affidamento della Capanna. Il 22 agosto 1971 con una sentita cerimonia si festeggia la Il 22 agosto 1971 con
una sentita cerimonia si festeggia la Capanna rimessa a nuovo. Purtroppo il 1978 si rivela un altro anno nefasto: in primavera un’ennesima slavina provoca alcuni danni e il 7 agosto durante il nubifragio che sconvolse l’Ossola (in particolare la Valle Vigezzo, La Valle Anzasca e la Valle Isorno), fece precipitare dei sassi sul manufatto.
La Sezione di Macugnaga provvide immediatamente al riparo dei danni con una spesa che sfiorò i due milioni di lire. Rimesso nuovamente in ordine il rifugio conobbe un’altra età dell’oro: nei mesi di luglio e agosto era un brulicare di alpinisti soprattutto nei fine settimana, occorreva dormire per terra perché brande, tavoli e panche erano già tutte occupate.
Poi i cambiamenti climatici, il permafrost che si assottiglia e non cementa più le rocce, le cadute di pietre, le lunghe scarpinate che diventano obsolete fanno passare di moda l’ascesa al rifugio Sella. Da Capanna con tanto di gestore, passa a bivacco incustodito e in qualche stagione, per problemi di sicurezza, rimane del tutto chiuso.
Non è più storia ma cronaca di questi anni che la Sezione di Macugnaga ha fatto il grande passo diventando unica proprietaria dell’immobile.
Come l’araba fenice, anche per il rifugio “Eugenio Sella” si aprono nuovi e confortanti scenari. Tutti facciamo il tifo perché andare da Macugnaga a Zermatt torni ad essere la splendida traversata alpina sulle orme degli antichi pellegrini che attraversano il Weissthor per raggiungere l’Isola di San Giulio!

 

 


 

Libri

7. Il compagno Andrea

Alberto Jacometti (1902 – 1983)
nasce in una cascina del Novarese, terra piatta che guarda le Alpi di lontano. Studia a Novara e diventa subito socialista e antifascista. Con l’avvento del Regime “emigra” in Francia e in Belgio dove anima il fuoriuscitismo.
Con l’invasione nazista del Belgio viene arrestato e inviato a Ventotene in confino politico (ci sono anche Sandro Pertini, Umberto Terracini, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli): una comunità di intellettuali che, in piena guerra, pensa all’Europa di domani.
Jacometti nel 1943 partecipa alla costituzione del CLN di Novara e dirige dalla clandestinità la Resistenza con il nome di battaglia di “Andrea”, con il quale gli amici sempre lo chiameranno negli anni successivi.
Nel dopoguerra è deputato all’Assemblea Costituente, parlamentare socialista, negli anni ’50 dopo la sconfitta del Fronte Popolare è segretario nazionale del PSI (quello di Pietro Nenni e non quello di Bettino Craxi, quello della Milano operaia e non della Milano “da bere”).
Un bravo storico novarese, Renzo Fiammetti (con il quale condivido l’impegno civile nel comitato scientifico dell’Istituto Storico di Novara e VCO “P. Fornara” fondato anche da Jacometti) ne ha scritto una biografia illuminante del Novecento.
Un altro fine ricercatore, l’amico Mauro Begozzi, ne ha curato la biografia per immagini. Il libro (“Il compagno Andrea” Interlinea, Novara, 2020) ha una presentazione di Angelo Del Boca che scrive: “La vita e la militanza socialista di Alberto Jacometti hanno attraversato il Novecento e confermato, una volta di più, l’importanza di quella generazione nata agli albori del XX secolo e che ha provato nella politica e nel giornalismo a lasciare non solo una traccia di sé, ma a costruire un mondo migliore per tutti. … Il Novecento è stato chiamato ‘secolo breve’, ma grazie a personaggi come Alberto Jacometti questo arco di tempo continua a riempire il dibattito contemporaneo”.
Mi piace pensare con fiducia a quegli uomini che discutevano di ideali e non di carriere e poltrone. Credevano nel confronto, anche aspro, e nella tolleranza, non nell’odio e nella prepotenza. Prima gli uomini degli italiani.