Paolo Crosa Lenz       Lepontica/5      Febbraio 2021

 

Sommario
1. Viva la scuola!
2. Viva il mare!
3. Viva la Resistenza!
4. Viva la maestra!
5. Francesco Zoppis
6. Il paese del pane bianco
7. Viva l’Italia!

 


 

Speranza

Viva la scuola!

In questo inizio di 2021 voglio gridare una cosa: viva la scuola!
Quella che soffre e si offre a tutti, ai belli e ai brutti. Voglio bene agli insegnanti e agli ignoranti. Rubo questa immagine straordinaria dall’ultimo libro dell’amico Enrico Rizzi (fotografia di F. Wehrli, 1906, Splugen, Rheinwald). Sono bambini, ma sono già uomini.
Quale speranza possono avere se non la scuola? Leggere, scrivere e fare di conto. Tema quanto mai attuale.
Leggere (bisogna capire quello che c’è scritto), scrivere (la scrittura è esercizio di libero pensiero positivo, non altro), fare di conto (l’aritmetica senza etica è inutile). Ho sempre insegnato ai miei studenti che nella vita non basta aver ragioni, bisogna anche avere le parole per sostenerle.
Dedico questo numero di Lepontica alla scuola, per me palestra di vita e fonte di reddito (lo stipendio da insegnante). Viva la scuola e viva anche Gianni Rodari.
Filastrocca per tutti i bambini,
per gli italiani e gli abissini,
per i russi e per gli inglesi,
gli americani ed i francesi,
per quelli neri come il carbone,
per quelli rossi come il mattone,
per quelli gialli che stanno in Cina,
dove è sera se qui è mattina,
per quelli che stanno in mezzo ai ghiacci
e dormono dentro un sacco di stracci,
per quelli che stanno nella foresta
dove le scimmie fan sempre festa,
per quelli che stanno di qua o di là,
in campagna od in città,
per i bambini di tutto il mondo
che fanno un grande girotondo,
con le mani nelle mani,
sui paralleli e sui meridiani.
Speranza
Viva la scuola!

Negli anni ’70 del Novecento un operaio migrante settimanalmente in Svizzera provò a mandare un figlio all’università (allora ci stava la figura dello studente – lavoratore).
Voleva dire che uno lavorava, andava ogni due mesi a Milano o a Torino, comprava i libri, studiava la sera, il sabato e la domenica, andava a fare gli esami ed era contento se andava bene. Questo accadde in Val d’Ossola, ma altrove in Italia.
Accadde anche che, al circolo del paese, una domenica il sindaco padrone del paese disse all’emigrante: “Chi ti credi di essere di mandare un figlio all’università?”.
L’emigrante si alzò e, con sguardo cupo e determinato, tornò a casa.
Non so se l’uomo pianse, ma il figlio continuò a studiare.
Tutte le immagini sono in bianco e nero, come i tempi che stiamo vivendo

 


 

Scuola

2.Viva il mare

Inizi anni ’80 del Novecento. Valle Anzasca. Scuola media di Vanzone. Giovane insegnante fui assegnato per un anno lassù. Ne fui felice.
Avevo letto “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani (1923 – 1967), priore di Barbiana. Barbiana era un paese poverissimo sulle montagne del Mugello in Toscana a cui don Lorenzo fu assegnato per screzi con la curia di Firenze (vi parlerò dei tanti preti coraggiosi “mandati in castigo” anche da noi!). Capì che la scuola fosse l’unica opportunità per sfuggire all’emarginazione ed uscire dalla povertà.
Difese l’obiezione di coscienza e immaginò una scuola dove tutti studiavano insieme (alunni e insegnanti); fu l’inventore del “tempo pieno”.
Il suo motto, mutuato dall’inglese, fu “I care” (mi importa, ho a cuore). Vi ricorda qualcosa?
I suoi scritti furono osteggiati dalla Chiesa: il Sant’Uffizio (ufficio santo?) fece ritirare il suo libro del 1958 “Esperienze pastorali” dalle librerie. Era roba che non si doveva leggere.
Così con “Lettera a una professoressa” che divenne il manifesto del grande rinnovamento della scuola negli anni Settanta. Don Lorenzo Milani morì di malattia a 47 anni. Imparai molto da lui.
A quel tempo mi illudevo che se avessi insegnato bene, avrei contribuito a rendere migliore il mondo (un po’ ci credo ancora!). In Valle Anzasca avevo una seconda e una terza media.
In seconda, parlando, scoprii che dei miei studenti quasi nessuno aveva visto una città. Altro che insegnare la storia dei Visconti o delle Cinque Giornate, organizzai una gita a vedere il Duomo di Milano. Pullman pieno
a metà, casino sommo e gioia grande. Quando entrammo in città, improvviso calò il silenzio; i ragazzi con il volto incollato ai finestrini, una bimba mi chiese: “Ma qui è tutti i giorni così?”.
In terza, su diciannove alunni, quindici non avevano ancora visto il mare. Solo quelli (ricchi) di Macugnaga che andavano in autunno saltando la scuola. Organizzai una gita a vedere il mare. Dove? Ovviamente a Rimini. Il pullman si ferma sul viale, a destra l’albergo, a sinistra la spiaggia. Raccomandazione: “Scendiamo in ordine, prendiamo i bagagli, andiamo in albergo e poi sulla spiaggia”.
Si aprono le porte e, ovviamente, c’è un fuggi fuggi.
Tutti in fila (non indiana!) sulla spiaggia, in silenzio a guardare il mare.
C’era un ragazzo pluriripetente che il pomeriggio lavorava già da muratore. Gli diedi una gomitata, mi disse “Profesur, quant’acqua!”.
Anni dopo, ormai grande, venne a presentarmi la morosa.

 


 

Scuola e storia

3.Viva la Resistenza!

Nel 1997 i rappresentanti delle organizzazioni della Resistenza (partigiani, deportati politici, internati militari, comunità ebraiche) e l’Istituto Storico della Resistenza “Piero Fornara” hanno costituito un’Associazione per la gestione della Casa della Resistenza e dell’area monumentale in cui è inserita (il Parco della memoria e della pace). La Casa (una delle più grandi in Europa nel suo genere) è una grande aula dove gli studenti di tutta Italia vanno a studiare la storia del Novecento, in particolare, la Resistenza partigiana e la seconda guerra mondiale. Per questo i due richiami etici: memoria e pace. La Casa sorge sul luogo dell’eccidio del giugno 1944.
La mattina del 20 giugno, alcuni partigiani catturati durante il rastrellamento della Val Grande vengono prelevati dalle cantine dell’asilo di Malesco, caricati su un camion e condotti nei sotterranei di Villa Caramora a Intra, sede del comando SS. Dopo ore di sevizie e torture, verso le 15.00, 43 partigiani, vengono fatti sfilare incolonnati da Intra a Fondotoce (tra loro una donna: Cleonice Tomassetti). Le strade sono deserte, le persiane chiuse, la città è silenziosa. La marcia dei prigionieri si conclude sulla riva del canale che mette in collegamento il lago di Mergozzo con il Lago Maggiore, nel luogo di fronte al presidio assaltato dai partigiani comandati da Mario Muneghina, ove erano stati catturati e fatti prigionieri oltre 40 fascisti.
I partigiani a tre a tre vengono uccisi dal plotone di esecuzione. Un ufficiale tedesco spara a ciascuno un colpo alla nuca. Si salva solo il partigiano diciottenne Carlo Suzzi, ferito e coperto dai cadaveri dei compagni. A sera verrà raccolto dalla popolazione di Fondotoce, curato e messo in salvo. Riprenderà a combattere da partigiano fino alla Liberazione con il nome di Quarantatré. Nel Parco vi è un muro che ricorda il nome dei 1230 caduti partigiani delle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara; un’altra lapide commemora i deportati militari nei lager nazisti, un’urna contiene ceneri del campo di concentramento di Mauthausen ed una lapide ricorda i 54 ebrei uccisi sul Lago Maggiore durante la prima strage in Italia, la più numerosa dopo quella delle Fosse Ardeatine. La Casa della Resistenza, visitata annualmente da migliaia di persone provenienti dall’Italia e dall’Europa, ospita mostre permanenti e temporanee ed è sede di convegni e dibattiti, offre un fondo librario specializzato con oltre 5.000 volumi, un archivio ed un’aula didattica. Una moderna “galleria della memoria” permette, con l’impiego di sofisticate tecnologie multimediali, di ripercorrere le vicende del luogo. L’Associazione pubblica il periodico trimestrale “Nuova Resistenza Unita”.
Nel corso del 2021 verrà realizzato il progetto “Bosco delle Memorie viventi” che prevede la riqualificazione naturalistica del Parco e attività didattiche che incroceranno la memoria di eventi lontani con storie di alberi e fiori. Anche i boschi e gli alpeggi dei nostri monti pagarono un prezzo ai rastrellamenti nazifascisti.


 

Scuola di montagna

4.Viva la maestra!

Nell’immagine: la scuola elementare di Staffa a Macugnaga.

Nella prima metà del Novecento (forse anche dopo!) fare la maestra nelle alte valli alpine era un’avventura. Onore a quelle giovani ragazze, catapultate in un “altro mondo” e sopravvissute. Vi racconto la storia delle scuole elementari di Macugnaga, rubata dal libro “Macugnaga nel Novecento” (2020). Sono memorie di “vecchi” alunni.
“C’era una maestra, già avanti negli anni, che abitava a Ripa, se non andavamo a scuola veniva a casa a prenderci. Un’altra allevava delle oche che poi vendeva. Io la 4ª e la 5ª le ho fatte in collegio in quanto io e miei fratelli siamo rimasti orfani, nostro papà Giovanni Battista è morto di silicosi, contratta nelle miniere d’oro di Pestarena”.
“Avevamo tutti la blusa nera con il colletto azzurro. Si entrava in classe e bisognava fare il saluto al Duce e poi la maestra salutava gli scolari.
Noi eravamo cinque fratelli e tre sorelle ed avevamo tutti una cartella di pezza, tenuta assieme da legnetti e da una cordicella.
Durante l’anno c’era un’unica festa, quella degli alberi che si teneva in primavera. La 4ª e 5ª le ho fatte a Borca. In inverno ci si andava con lo slittino o con il bob e là c’era il servizio di refezione”.
“A Borca ha insegnato per tanti anni Maria Lampugnani. Ma i miei maestri sono stati: Ada Rossi di Castiglione, Anna Aloisi e Pacifico Caielli.
Avevo una cartella di cartone, l’astuccio di legno e il libro “Mago sapere”. Un giorno siamo andati a scuola con le tasche piene di rane vive, la punizione non si è fatta attendere: mani in cima alla cattedra e decisa bacchettata sulle dita, zitti e via con il riso sotto le ginocchia dietro la lavagna.
E guai andare a casa a raccontare qualcosa… Prima di iniziare la lezione c’era la preghiera e se entrava qualcuno in classe ci si alzava in silenzio. Al sabato pomeriggio per le bambine c’erano cucito e ricamo”.
“A Pestarena c’erano le prime tre classi poi si andava a Borca.
Là le classi 4ª e 5ª erano state istituite nel 1939 e, nei primi tempi, fra gli alunni c’erano anche ragazzi di 18 anni.
Imperava la maestra Maria Lampugnani a cui ho tirato, involontariamente, una palla di neve.
Risultato: bocciato in quarta e lei non era la mia maestra”.


 

Personaggi

5. Francesco Zoppis (1919-1992)

Nell’immagine, il “maestro” con i suoi alunni: oggi hanno tutti sessant’anni.

Fu insegnante di scuola elementare ad Ornavasso prima e a Domodossola poi. Il suo ruolo nella cultura della Val d’Ossola va oltre la scuola. Fu direttore del settimanale cattolico “Il Popolo dell’Ossola” (ruolo che svolse con onestà e rigore), ma soprattutto ebbe due meriti pionieristici da nobile intellettuale.
Primo. Nell’estate 1965 Francesco Zoppis, con l’amico Franco Franculin Crosa Lenz percorsero in dieci giorni le Alpi dell’Ossola e della Valsesia per riannodare i legami fra le colonie walser. Vent’anni prima del libro di Renzo Mortarotti e degli studi fecondi di Enrico Rizzi. Bisognava vedere lontano, avere valori buoni e intuizioni grandi per pensare a quella avventura. Furono accolti benevolmente dalle comunità, camminarono tanto e, penso, si divertirono.
Secondo. Nel 1981 pubblicò “I racconti della rocca” (Grossi, Domodossola): fu il primo esperimento di racconto della storia dell’Ossola per tutti, non per i colti o gli intellettuali. Una prova di buona divulgazione che accomunava (per i tempi!) acquisizioni storiche certe a lingua comprensibile ai non specialisti. Anche in questo, un’opera da pionieri.
Che qualcuno gli volesse bene lo dimostrò il nostro settimanale “ECO Risveglio Ossolano” (23 luglio 1992) che gli dedicò quattro pagine di “Inserto speciale” con firme sincere (Benito Mazzi, Edgardo Ferrari, Pierantonio Ragozza, Paolo Bologna, Paolo Crosa Lenz).
E dire che Francesco Zoppis era stato direttore del giornale “concorrente”!
Due testimonianze. Benito Mazzi: “Quasi ti sfiorava con il motorino eppure non ti vedeva. Concentratissimo, lo sguardo fisso alla strada, la giacca aperta svolazzante dietro, zigzagava come un giovanotto per i vicoli della città.”
Edgardo Ferrari: “Per scrivere del passato, recente o remoto, bisogna conoscere i dati storici, i documenti; per essere letti, è necessario anche partecipare delle ansie e delle gioie, delle paure e dei desideri degli uomini, che non sono mai anonimi anche se la Storia, impietosa e superficiale, non ha raccolto i nomi”.
Il maestro Zoppis mi ha insegnato in terza e quarta elementare (ne avevo timore perché sapevo che al circolo beveva un bicchiere con mio papà); a volte veniva a scuola con gli scarponi oppure aveva due cravatte (capita a chi pensa tanto!).
Il maestro il sabato mattina ci faceva ascoltare, da un giradischi posto sulla cattedra, i canti alpini del coro della SAT. Se qualcuno provava ad addormentarsi, arrivavano sberloni, ma noi (che eravamo già sgamati) sapevamo che subito dopo sarebbe arrivata la carezza. Con quelle sue manone da boscaiolo.


 

Scuola e guerra

6. Il paese del pane bianco

Paolo Bologna (1928 – 2015) non era uomo di scuola. Fu uomo di montagna e figura di spicco del mondo culturale ossolano.
Se la scuola non è solo grammatica e aritmetica, ma anche pedagogia (formazione dell’uomo) lui ci appartiene. Lo ricordo in ritardo a cinque anni dalla scomparsa.
Fu primo responsabile della Xa Delegazione “Valdossola” del Soccorso Alpino e artefice della nascita del CAI – SEO Domodossola negli anni Cinquanta del Novecento, dalla fusione del CAI Domo (1869) con la Società Escursionisti Ossolani di Piedimulera. Paolo Bologna fu partigiano e storico della Resistenza ossolana.
Qui è la pedagogia: conservare in modo limpido i valori alti di quei “Quaranta giorni di libertà” della Repubblica dell’Ossola.
Il suo libro “Il prezzo di una capra marcia” 1969, 2016 (tanto valeva in quegli anni una vita!) è stato confrontato da Gianfranco Contini con “Guerra e pace” di Tolstoj. Non un’opera di storia, ma di memoria, dando voce a che non l’avrebbe avuta.
Per molti anni presidente dell’ANPI di Domodossola, impegnato per tre tornate nell’amministrazione comunale, fu uomo di saldo impegno civile.
Paolo Bologna pubblicò un libro (“Il paese del pane bianco” Grossi, Domodossola, 1994) che ha a che fare con la scuola. Alla caduta della Repubblica dell’Ossola (ottobre 1944), la Svizzera accolse, oltre a migliaia di combattenti e civili, circa 2500 bambini ossolani tra i 5 e i 13 anni, confermando una secolare tradizione di ospitalità umanitaria, che si era manifestata all’indomani dell’armistizio trasformando la Confederazione Elvetica in “Terra d’asilo”.
Molti di quei bambini videro per la prima volta il pane bianco di grano, perché abituati a mangiare solo il pane nero di segale.
L’espatrio fu organizzato dalla Croce Rossa e i bambini furono ospitati da famiglie svizzere che poi mantennero negli anni rapporti di affetto e amicizia con i piccoli rientrati.
Il trasferimento avvenne in treno con la ferrovia internazionale del Sempione e con la “Vigezzina”, ferrovia a scartamento ridotto tra Domodossola e Locarno.
L’anno prima (1993) scrisse un libro, bellissimo e oggi forse introvabile (“Non solo pietre” Rizzardi, Domodossola), illustrato con splendide tavole di Giuliano Crivelli. Nel libro, Paolo Bologna dice che l’Ossola non è solo roccia e montagne, monumenti imponenti e palazzi signorili, ma anche animali, fiori, piante.
Quasi trent’anni fa, un’intuizione straordinaria che lo pone come un precursore del moderno ambientalismo. Anche qui pedagogia.
 


 

Scuola di montagna

7. Viva l’Italia

Marcello D’Orta (1953 – 2013) era un maestro di scuola elementare napoletano, figlio di maestro e con nove fratelli. Insegnò nelle aree più povere della Campania.
Nel 1990 scrisse un libro (“Io speriamo che me la cavo”) che in un anno vendette due milioni di copie. Nel libro ci sono sessanta temi di bambini napoletani, infarciti di dialetto e ingenuità, ma carichi di speranza.
Nel 1992 Lina Wertmüller ne trasse un film interpretato da Paolo Villaggio. Morì giovane di tumore. Scrisse: “Io, modesto maestro elementare, dissento da glottologi, filologi e professori universitari. Il dialetto nasce dentro, è lingua dell’intimità, dell’habitat, coscienza terrosa di un popolo, sta all’individuo parlante come la radice all’albero; nasce nella zolla, si nutre nell’humus, si fonde nella pianta stessa.
È, insomma, l’anima di un popolo”.
Parole che a volte mi rinvengono.
Non ho mai rimproverato un alunno perché usava espressioni dialettali.
Nel 1991 l’editore Rizzoli pubblicò “Almeno questanno fammi promosso”. Era l’estratto di 130 temi di ragazzi del nord (Piemonte e Lombardia). Una risposta “nordista” al libro del maestro napoletano. Il libro uscì scritto da Gaetano Afeltra a cura di Benito Mazzi (in realtà lo realizzò l’amico scrittore vigezzino e si avverte la sua sapienza di scrittura e il suo senso ironico della vita). Il grosso dei temi era di bambini della Valle Vigezzo. È la montagna che parla. Un profondo nord che non è diverso né migliore del profondo sud. Ne estraggo alcune perle.
La grande nevicata
“Nei giorni trascorsi c’è stata una grande nevicata grande più di quella del 1888, in 5 giorni sono caduti 5 metri di neve per fortuna era pufia, però siamo rimasti senza luce, senza strade, senza treno, senza riscaldamento, senza acqua e senza telefono… C’è mancato poco che restavamo anche senza la nonna, mio papà strillava nella strada: ‘aiò perdù la sosara, la trovi pu’.
Credeva che la nonna era rimasta sotto la neve caduta dal tetto e la cercava sgarbando nella neve, invece mia nonna era di sopra che dormiva pasciatamente… Anche mia mamma ne ha una barba della neve, meglio se non fiocasse mai come in Africa, dice fortunati i meridionali che abitano in quel posto.”
La tua valle com’era e com’è
“Ne abbiamo parlato tanto a scuola e la signora ci ha letto dei libri antichissimi sulla Valle… Non c’è tanta differenza nella mia valle tra cento anni fa e attualmente, cento anni fa i problemi erano: la spagnola, il mal dal grup, la miseria detta carestia, la fatica di lavorare, dovere emigrare lasciando la famiglia…
Oggi tante famiglie sono più sfasciate di allora, ci sono dei bambini che hanno due o tre papà e una sfilza di mamme, non c’è più la spagnola ma c’è l’Aids e i tumori. Altre piaghe: la mafia che c’è anche nell’Ossola dove comandano nei progetti delle case sempre gli stessi e fanno scoppiare le macchine come al Sud anche se per intanto non ammazzano ancora, le violenze sui minorati, i varesotti gratafunc e fasoi negli orti… Mio papà mi ha detto che una volta a Malesco c’era l’Ospedale Trabucchi, oggi non c’è più in tutta la valle, se ti fai un taglietto come un unghia devi correre venti km fino a Domodossola perché il dottore non cià neanche il filo e la vugia… In valle non c’è neanche una casa chiusa per i vecchi.”
Una gita scolastica
“La nostra insegnante voleva portarci alla gita scolastica ma teme che rapiscano qualcuno di noi che ha i genitori ricchi di soldi e condomini… E così rimaniamo a scuola anche noi che siamo così così… Venerdì finalmente siamo stati accompagnati dalla signorina maestra e inseguiti dai bidelli a vedere una Chiesa vicina alla scuola per ammirare le artistiche vetraie dipinte a colori e i tipi di archi che in sostanzia erano tre: a sesso acuto, a tutto sesso, a sesso ribassato.”
Si parla tanto delle leghe
“Le leghe sono di due tipi: quelle dei metalli e quelle delle elezioni… ma più di tutte la lega Lombarda e poi la lega Piemonte, la lega Veneta, la lega Araba e il cantante Gipo Farassino che non vuole i negri con la lebra… Se vanno su le leghe i vuoi cumprà li trasferiscono tutti in Svizzera e anche i meridionali non possono più venire qui da noi, ma però ci impiniscono di Varesotti che è ben peggio… Un uomo che fa il falegname dice che noi per andare bene dobbiamo costruire un muro al imboco della Valle alto 50 metri quadrati e non lasciare venire su più nessuno.”