Paolo Crosa Lenz       Lepontica/21      Luglio 2022

Sommario

1. I censimenti primaverili del fagiano di monte
2. Subi
3. I 70 anni di fondazione della CIPRA
4. La lepre e la politica
5. Cent’anni fa la prima donna sulla Est del Monte Rosa
6. Una nuova via diretta sul “triangolo” della Cima Jazzi
7. “Il genio degli Ossolani nel Mondo”


Natura

1. I censimenti primaverili del fagiano di monte

Lo scorso maggio sono stati effettuati i conteggi primaverili di fagiano di monte sui monti tutelati dalle Aree Protette dell’Ossola (i parchi naturali di alpe Veglia, alpe Devero e Alta Valle Antrona).
Questa attività ha lo scopo di definire lo stato della popolazione e la sua evoluzione nel tempo (se aumenta, diminuisce, oppure è stabile) ed è di primaria importanza per la conservazione di questa specie emblematica delle Alpi.
Il censimento prevede il conteggio dei maschi impegnati nelle parate nuziali che si svolgono alle primissime luci dell’alba.
Diversi operatori si appostano in punti strategici, mantenuti di anno in anno, che garantiscono una buona visibilità dell’area da censire.
A volte è necessario il pernottamento in quota, per raggiungere le postazioni in tempo utile.
Mi racconta l’amico Radames Bionda, tecnico faunistico delle APO che da trent’anni organizza i censimenti e tratta i dati: “Le condizioni climatiche particolarmente favorevoli che hanno caratterizzato le settimane scorse hanno consentito di effettuare entrambe le ripetizioni previste nelle due aree di Veglia e Devero, mentre il conteggio in Antrona è stato effettuato una sola volta. Sono stati conteggiati 68 maschi di fagiano di monte a Devero, 32 a Veglia e 18 in Antrona, dove l’area censita è meno estesa rispetto alle altre. I numeri sono simili a quelli osservati l’anno precedente. Attività di questo tipo necessitano dell’impiego simultaneo di un numero elevato di operatori. Alle cinque giornate dedicate all’attività, oltre al personale tecnico e ai guardiaparco dell’Ente, hanno partecipato ben 19 volontari”.
Sul finire della primavera i maschi di fagiano di monte si radunano poco prima dell’alba nelle arene di canto.
In questi siti, i maschi si affrontano in epiche battaglie canore che possono sfociare in veri e propri scontri fisici. Tutto questo avviene per conquistare l’accesso alle femmine e poter dare nuova linfa vitale alle popolazioni della specie.
Meraviglia della Natura: la vita è riproduzione (“Bios”), ma per riprodursi bisogna sopravvivere.
In tempi di cambiamenti climatici accelerati, la stabilità delle popolazioni di fagiano di monte sulle Alpi Pennine e Lepontine è una buona notizia.

Il confronto tra due maschi di fagiano di monte in parata (ph Radames Bionda)


Una parola al mese

2. Subi

Subi è parola walser che indica un filo d’acqua. Va pronunciata con la “s” dolce, non sibilante. Esprime l’agonia di una sorgente. Una parola quanto mai d’attualità in questo inizio d’estate che paga pesante la prolungata siccità primaverile. Nonostante le sorgenti si stiano impoverendo, nella mia valle il fieno di maggio è stato buono, grazie al grande caldo ed alcuni temporali forti.
Un subi è quando il potente getto della sorgente all’improvviso si affievolisce e si riduce ad un filo, poco prima di spegnersi.
Un tempo voleva dire che ci si doveva preparare ad abbandonare l’alpe. Si sa, le mucche bevono tanto e non sono in grado, come le capre e le pecore, di andare a cercarla nei ruscelli più lontani.
Pochi giorni fa sono salito all’alpe per tagliare l’erba attorno alla baita. Da bambino la tagliavo per fare fieno per le capre; oggi è un’erba sempre più alta, se non la tagli ti mangia tutto.
Il mio alpe è vicino al torrente e per quattrocento anni l’acqua era l’unica cosa che non mancava. Poi quelli delle centraline l’hanno portata via per fare corrente e guadagnare
È rimasta la sorgente, lontana nel bosco; l’acqua non posso portarla a baita perché manca la pendenza. Ma c’è, l’unica buona acqua.
Quando sono salito ho aperto il rubinetto ed è uscito solo un subi. Mi sa che dovrò aspettare settembre per tornare a baita, sperando nelle piogge d’agosto. Mi sono seduto sotto un albero e mi è venuto da dire che subi sia proprio una parolaccia

 

 

 

 

 


 

Ambiente

3. I 70 anni di fondazione della CIPRA

Il 5 maggio 1952 la geologa Edith Ebers invitò i rappresentanti dei Paesi alpini nella città bavarese di Rottach-Egern per elaborare insieme una serie di linee guida internazionali a tutela delle Alpi. In quegli anni, finita la ricostruzione postbellica e agli inizi del boom economico, si parlava di deviare i fiumi o costruire un faro sul Cervino, funivie dappertutto e alberghi rotondi sulle vette. Erano progetti che circolavano in Francia e in Italia. Un modo per “addomesticare” le montagne. Chi non conosce la storia, ci ricasca anche oggi.
Da quell’incontro nacque la CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione della Regione Alpina) che dal 1983 ha sede in Liechtenstein, geograficamente il paese più integralmente alpino d’Europa.
Da una visione della società civile che sulle Alpi doveva essere equilibrata e “sostenibile”, quarant’anni dopo è nato un trattato internazionale vincolante: nel 1991 gli Stati alpini e la Comunità Economica Europea (CEE) firmarono la Convenzione delle Alpi, che è entrata in vigore nel 1995.
Da 70 anni la CIPRA si batte per una buona vita di uomini, piante e animali nelle Alpi.
L’obiettivo è quello di mettere in contatto le persone, superare le frontiere, proteggere uomini e natura.
Palmeti fin sulla cima delle montagne, villaggi alpini digitalizzati, estinzione delle api: come potrebbe essere la regione alpina di domani?
Potrebbe essere anche pascoli alpini che forniscono cibo; alberi che generano un microclima gradevole; paesaggi alpini che guariscono ed emozionano.
Dal 1995 al 2004 è stato presidente di CIPRA International il mio amico vallesano Andreas Weissen, originario della valle di Binn, a nord delle Alpi Lepontine, dietro l’alpe Devero. Quando viene a trovarmi una volta l’anno, beviamo un bicchiere e parliamo di “visioni lunghe” sul futuro delle nostre montagne.
Sì, perché le Alpi hanno bisogno di idee buone e lungimiranti, ma anche di gambe e muscoli per portarle avanti. Ci lasciamo sempre con un fardello in più da portare.


Poesia

4. La lepre e la politica

Remigio Biancossi (1917–2003) è stata una delle figure più singolari della cultura ossolana nella seconda metà del Novecento.
Fu prete di montagna in Val d’Ossola, parroco prima a Bognanco e poi in Valle Antrona. Scrisse una ventina di libri di prosa e soprattutto di poesia. Nel 2017, con l’amico libraio ed editore Alessandro Grossi, pubblicammo una sua antologia per celebrare il centenario della nascita. Così lo ricorda Grossi in una commovente introduzione al libro: “Uomo colto e bibliofilo raffinato, era un piacere accompagnarlo alla ricerca di un’edizione rara della Bibbia o della Divina Commedia, di un testo antico in edizione di pregio così come di un testo di teologia contemporanea e innovativa”. Dalla sua raccolta poetica Canti della Val d’Ossola, pubblicata nel 1974, estraggo la poesia “La lepre”.

Viva la lepre,
bestia esemplare
che il gran politico
sa imitare!
Ogni pertugio
per lei ch’è furba
serve a rifugio;
stando appiattita
vince partita.
Passa il bifolco?
quasi la pesta?
la bestia scaltra
nel covo resta.
Saper tacere!
mai spaventarsi
che bel mestiere!
poi rape e grano
a tutto spiano.
Basta cambiare
di tanto in tanto
colore al pelo…

È proprio un manto
che ben s’adatta,
tra poco e riso,
ad ogni fratta;
rovina presto
chi fa l’onesto.
O che virtù l’adattamento!
Estate, inverno,
nevischio o vento,
non contan molto;
quello che vale
solo è il raccolto;
roccia o maggese?
tutto è paese.
E come rode!
perchè vorace
invade gli orti,
diventa audace.
E non è raro
che in cascinale
cerchi riparo;
qui c’è la pacchia
altro che in macchia!

In certe notti,
al chiar di luna,
guardinga gioca…
la pelle è una…
Per lei scaltrita
la diffidenza
norma è di vita.
Chi non sospetta
non resta in vetta.
Sempre braccata
la lepre alpina;
martora, donnola,
volpe e faina
coi lacci l’uomo
le fan la corte;
è succulenta
con la polenta.
So che fa danno
ma, cacciatore,
di certo mostri
maggior valore
se cacci onesto.
Rispetta i piccoli,
crescono presto.
Sporco bottino
è un leprottino

 


Alpinismo

5. Cent’anni fa la prima donna sulla Est del Monte Rosa

Il 28 agosto 1922 Beatrice Chiovenda (1901 – 2002) fu la prima donna a scalare la parete Est della Dufour lungo la classica via del canalone Marinelli. Con lei il fratello Renzo. L’anno prima aveva salito la Dufour per il crestone Rey. A 21 anni, una ragazza che non temeva le sfide grandi. La scalata fu effettuata con il fratello Renzo, sotto la guida esperta di Cristoforo Tofi Iacchini. La via era stata percorsa soltanto due anni prima dai fratelli Reiser di Milano con Tofi come guida. Nei precedenti quindici anni, nessun alpinista aveva scalato il versante italiano della Dufour.
Mi ricorda Enrico Rizzi: “Sopra un foglio poi smarrito, la coraggiosa giovane alpinista annotò lo spavento provato a poche ore dalla vetta, quando un frammento di roccia “lanciato” dalla Dufour colpì Renzo sulla sommità della testa. I compagni sentirono il suo grido e videro il sangue scorrergli sul viso. Erminio Iacchini (che dopo quella vittoriosa impresa venne promosso da portatore a guida) gli allungò con la mano un fazzoletto. Tofi brontolò qualche parola incomprensibile e poi spiegò, con la saggezza della sua lunga esperienza della montagna, che un sasso in testa o è la morte o non è niente. Renzo Chiovenda portò per tutta la vita sulla fronte il segno di quella roccia, e quando qualcuno a Roma gli chiedeva se fosse una cicatrice di guerra, rispondeva con orgoglio: “No, è il Monte Rosa”.
Beatrice era figlia di Giuseppe Chiovenda, giurista la cui riforma influenzò il processo civile in tutto il mondo e che oggi dà nome al paese natale: Premosello Chiovenda. Il padre, che non si tolse il cappello alle blandizie del Regime, le insegnò libertà e dignità.
Storica dell’arte, studiosa dell’Ossola, grande animatrice della vita culturale della valle, morta a 101 anni, Beatrice Chiovenda è stata in gioventù una delle prime donne a praticare l’alpinismo. L’11 febbraio 1929 (il giorno della firma dei Patti Lateranensi) Beatrice sposò un facoltoso costruttore romano in Campidoglio.
La funzione civile fu l’ultima, poi o chiesa o niente. La sua casa di Premosello fu cenacolo fecondo dove un giovane e timido studioso si affacciò al mondo affascinante della ricerca storica.
Beatrice Chiovenda con il padre Giuseppe nel 1906
Cristoforo Tofi Iacchini di fronte alla sua grande montagna


Alpinismo

6. Una nuova via diretta sul “triangolo” della Cima Jazzi

Il Monte Rosa, la seconda montagna più alta d’Europa, è simbolo degli intensi cambiamenti climatici in atto sulle Alpi. I suoi poderosi e storici itinerari glaciali (il “canalone Marinelli”, la “via dei Francesi”, la “Brioschi”) hanno mutato il loro terreno di scalata e in estate sono impercorribili. Eppure il Monte Rosa riserva ancora terreno per nuove imprese alpinistiche.
Così il 15 e 16 giugno, due alpinisti ossolani (Fabrizio Manoni e Andrea Lanti) hanno tracciato un nuovo itinerario di scalata a “goccia d’acqua” sul Triangolo della Jazzi.
La Cima Jazzi (3804 m) sul versante est precipita grandiosa per 1600 m sui pascoli alti di Macugnaga: il toponimo tipicamente walser, col significato di “ricovero notturno del bestiame”, deriva dall’alpe Jazzi alla base. Il “triangolo” costituisce una delle più classiche e impegnative salite su roccia del Monte Rosa. Fu salita il 28-29 giugno 1959 da due cordate guidate da Mario Bisaccia e dalla guida alpina di Macugnaga Pierino Jacchini.
L’itinerario sale al centro la grande parete triangolare di roccia rossiccia che scende sul versante orientale e si origina a 3428 m. Il “triangolo” è la metà superiore della parete, verticale e di roccia abbastanza solida. Oggi Fabrizio Manoni, non più giovane ma sempre fortissima guida alpina, e Andrea Lanti, che ha superato il difficile percorso di accesso al corso guide, hanno dimostrato che l’alpinismo sa sempre rigenerarsi, specialmente quest’anno che celebra i 150 anni della prima salita della Est del Monte Rosa (1872).
I numeri del nuovo itinerario sono essenziali: 600 metri di parete, 13 tiri, difficoltà massimo di 7° e 7a obbligatorio. Una giornata di coraggio e sofferenza.
Racconta Fabrizio Manoni: “Al secondo tiro ho fatto uno dei tre “voli” più lunghi della mia vita. Stavo forzando in arrampicata libera un piccolo strapiombo. Non riuscendo a piazzare ne friends ne chiodi ho deciso di desistere e mettere un fix. Mentre estraevo dallo zainetto il trapano, l’appiglio su cui mi tenevo con la mano destra si è staccata di netto. E sono precipitato dallo strapiombo a testa in giù e con il trapano in mano. Un microfriend ha trattenuto la mia caduta. Ma intanto mi ero fatto diversi metri ed atterrato sulla placca che avevo scalato qualche minuto prima. Sangue ovunque. I polpastrelli dell’anulare sinistro e del medio destro si erano aperti lasciando uscire sangue in modo copioso. Ma ho capito che potevo proseguire poiché non avevo rotto nulla. Il resto del triangolo è stata un’avventura verticale assoluta”. Così, mentre Fabrizio Manoni si sta “leccando le ferite”, una nuova pagina della storia alpinistica del Monte Rosa è stata scritta.

 


Libri

7.“Il genio degli Ossolani nel Mondo”

Nel 1993 un gruppo di intellettuali della mia valle ideò una ricerca sui molti illustri Ossolani che nel passato hanno degnamente onorato la “piccola patria”. Un’impresa ardua e di largo respiro, finalizzata a dare identità ad una valle alpina attraverso il racconto di nobili storie individuali. 29 anni dopo, la tenacia intellettuale dell’amico Enrico Rizzi ha portato a conclusione l’opera. Ne sono nati un libro (“Il genio degli Ossolani nel Mondo” Grossi, Domodossola, 2022) e una mostra visitabile in Palazzo Silva a Domodossola fino ad ottobre.
Dalla raccolta paziente in trecento cartelline rosse, contenenti appunti, immagini e documenti, ne sono uscite trecento biografie che restituiscono vite geniali ed imprese epiche. In apertura vi è l’incipit di Giuseppe Chiovenda. Recita: “L’Ossola, bellissima tra le valli delle Alpi, ha dato guerrieri alle barbarie e dotti alla civiltà, Papi alla Chiesa e all’eresia Fra Dolcino, scoperte alla scienza e alle signore … l’Acqua di Colonia”.
Al fondo vi è una domanda: chi erano queste donne e questi uomini? Francesco Scaciga Della Silva, quasi duecento anni fa, rispondeva: “Erano gli Ossolani come quegli antichi Fenici che lontani dal lusso e dalla conquista, si resero necessari a tutti i popoli colla loro fatica, coll’industria e colla frugalità nella quale vivevano. Ma un amore sviscerato conservavano i nostri per la patria, che ad ogni altro paese sempre anteponevano … Erano costoro come le api, che dalle città d’Europa raccoglievano il denaro, e portavano in paese il risparmio…”.
C’è una ironia della Storia in questo dizionario biografico, sulle orme del classico Treccani degli “Italiani illustri”, che comincia dalla A e finisce con la Z.
Il primo è Francesco Saverio Adorna (1744 – 1830), “aeronauta e pioniere dei voli areostatici umani”. Il 15 maggio 1784, da Strasburgo, con un pallone alto 26 metri e una circonferenza di 56 l’Adorna si alzò in cielo per un centinaio di metri, poi il pallone si incendiò precipitando rovinosamente su un “magazzino del re”. L’impresa fu realizzata e l’aeronauta si salvò. L’ultimo è Mattia Zurbriggen di Macugnaga (1856 – 1917), guida alpina con un innato senso della montagna ed un altrettanto non senso per la vita. Scalò, con alpinisti inglesi monti in Nuova Zelanda e salì per primo da solo l’Aconcagua in Sudamerica, oltre a grandi itinerari alpinistici sul Monte Rosa. “Dr Tifal” (il “diavolo” in lingua walser) morì suicida a Ginevra dove faceva lo sguattero. Sono certo che i miei convalligiani, il loro figli e i figli dei loro figli, troveranno in questo libro nuova linfa per confermare ancora una volta l’amore viscerale e orgoglioso per la “terra dei padri”. Si chiama Patria.

A sx: il “variopinto” pallone aerostatico di Adorna in un’incisione del XVIII secolo
Sopra: Mattia Zurbriggen