Paolo Crosa Lenz       Lepontica 33      Settembre 2023

Sommario

1. Chi ha inventato le zipline?
2. Bòkaci
3. Il Vescovo nel “cadregone”
4. Elogio della segale
5. Pietre feconde: gli scivoli della fertilità
6. Il contrabbando di fatica e di miseria
7. “Viaggi nelle Alpi”


Antropologia

1. Chi ha inventato le zipline?

Oggi vanno di moda le zipline: volare sospesi nel vuoto e appesi ad un cavo d’acciaio. Ci sono in tutte le regioni d’Italia (due sono nel VCO). Un’emozione a 120 km l’ora. Chi le ha inventate? Non qualche imprenditore immaginifico, ma i boscaioli delle Alpi. Un tempo si chiamavano “fili a sbalzo” per il trasporto dei materiali a caduta, in italiano palorci. La memoria dei montanari di Valle Antrona ricorda come fino alla prima guerra mondiale erano sconosciuti e tutto veniva trasportato a spalle o con la strusa (schiene giovani presto piegate da una fatica grande). Furono gli alpini del “Battaglione Intra” che portarono la novità dai teatri di guerra. Subito si diffusero: in primavera ed estate portavano minerale, in settembre enormi quantità di fieno da conservare per l’inverno, in ottobre carichi di legna da vendere per il riscaldamento o per lavorare il carbone. Settembre e ottobre erano mesi febbrili per tutto il villaggio, quando i fili (palorci) lavoravano dall’alba al tramonto.

C’è un aspetto, rimasto sopito nella memoria collettiva dei vecchi che a volte riaffiora con un velo di melanconia: a volte i fili a sbalzo trasportavano anche uomini. Scendevano appesi al filo per risparmiare il cammino del ritorno al paese e a volte cadevano, morendo in questo “gioco” spericolato. Non solo a Montescheno, ma anche nelle altre valli dell’Ossola: nella valle Ogliana di Beura, ricordano di giovani “appesi” che volavano da una parte all’altra delle valle. Due tavolette ex voto (una nella chiesa della Modonna della Neve a Bannio, l’altra nell’oratorio dell’alpe Lut a Premosello) raccontano di uomini che si sono salvati miracolosamente da questi viaggi “appesi a un filo.

 

Tavolette ex voto da R. Mortarotti “GR – Grazia Ricevuta” (Grossi, Domodossola, 1987)


Una parola al mese

2. Bòkaci

Il numero scorso di Lepontica vi ha parlato della prasée, la mangiatoia per le bestie nelle stalle dei contadini di montagna. Un vocabolo che parla di un piano terra. All’opposto il bòkaci (Buketschi nella linguistica walser) è il solaio, il sottotetto. Nelle cascine era anche il luogo dove si conservava il fieno per l’inverno. Nei mesi del riposo della campagna, un bòkaci pieno voleva dire una prasée piena: la garanzia che le mucche avessero da mangiare per arrivare a primavera e “tornare all’erba”. Era una questione delicata di risparmio e accumulo, controllata quotidianamente. Non come noi oggi, controllati e in balìa di una banca lontana. Il bòkaci era anche il ripostiglio dove si mettevano le cose che non si usavano più, ma non si buttavano via, in una società che del riciclo e del riuso aveva (forse inconsciamente, ma sostanzialmente) riposto uno dei pilastri di sopravvivenza. Anche qui, una lezione da imparare. Il bòkaci per noi bambini era un luogo misterioso e poco accessibile, di solito scuro e poco illuminato dove si conservavano oggetti misteriosi e forse segreti antichi. Nel bòkaci delle cascine c’era il fieno profumato su cui saltare, magari in compagnia di qualche amichetta. Oggi, per noi che facciamo fatica a capire le balordaggini di una società ipertecnologica, il bòkaci è un ripostiglio di memorie.

 

 

 


Montagna

3. Il Vescovo nel “cadregone”

Crealla è un villaggio di 23 abitanti, a 500 m di quota, in Val Cannobina, alle spalle del Lago Maggiore. Una volta gli abitanti erano parecchie centinaia, vi erano botteghe e osterie. La strada carrozzabile è arrivata a Crealla solo nel 2002, prima l’unico collegamento col mondo era una mulattiera di 1500 scalini. Fino al 2002 tutto doveva essere trasportato a spalle … anche il Vescovo.

L’amico Mario Ferrari è nato e ha vissuto la gioventù a Crealla. Poi se ne è andato. Ha scritto recentemente un prezioso e corposo (517 pagine) libro di memorie sulla vita tradizionale in una sperduta valle di montagna: la Val Cannobina (“Vivere e morire di montagna”, 2023). Ne traggo, tra le molte, questa storia esemplare nella seconda metà del Novecento. Lascio a lui la parola. “Il dieci agosto 1963, io, mia sorella e altri ragazzi di Crealla, una dozzina in tutto, fummo cresimati a Falmenta perché il Vescovo non se la sentiva di salire a piedi fino al nostro magico paesello. Non se la sentiva per via della lunga e impervia mulattiera a tornanti che doveva scarpinare con le sue lucide scarpette di pelle, che dovevano altresì sorreggere il peso dei suoi novanta chili. Placido Maria Cambiaghi si chiamava, lo ricordo bene perché durante la messa, nelle orazioni, ve n’era una apposita, per il Papa Paolo e per il nostro Vescovo Placido. Un omone possente e panciuto, con un bel viso sorridente e rassicurante. (Sei anni dopo) La mulattiera dei mille e cinquecento scalini fu tirata a lucido, anche se, visto che era la via maestra per collegarci con il mondo, lo era già di per sé, sempre ben tenuta. Il Vescovo decise quindi di farci visita a una condizione, che fosse portato a spalla sino al paese. Di solito le persone ammalate o anziane che non sopportavano la fatica di solcare a uno a uno i mille e cinquecento   gradini si barellavano legati. Non era però il caso di usare tale mezzo di trasporto per l’illustre ospite. Non ricordo né dove né come ma sitrovò una poltrona barellabile (cadrighugn): una comoda poltrona con applicate, ben salde, le aste uguali a quelle che si usano per trasportare le statue dei santi nelle processioni. Le statue dei santi erano di ges- so e per di più cave, il prelato era invece ben stagno e voluminoso. Una dozzina di uomini scesero a Ponte Falmenta vestiti a festa: la maggior parte di loro indossavano il completo a doppiopetto e rigorosamen- te anche il cappello.”

Nel 1991 la visita pastorale del Vescovo Renato Corti, agile e buon camminatore, lo vide salire con passo sicuro la storica mulattiera


Cultura contadina

4. L’elogio della segale

La segale è un cereale che dà una farina scura impiegata nella panificazione. Meno digeribile e nutriente del pane di frumento ha però una caratteristica: si conserva a lungo ed infatti nelle comunità contadine delle Alpi si panificava una volta o due l’anno. Il pane diventava duro come un sasso e veniva conservato su appositi graticci di legno; veni va frantumato con un coltellaccio fissato con un anello ad un basa mento in legno e quindi ammorbidito nel latte, nel vino o in minestre d’erbe. Un’alimentazione monotona e povera di vitamine, altro che “gastronomia alpina”. Oggi la segale è tornata di moda (il “pane nero col lardo e il miele”) e si fanno feste folkloristiche per accontentare i turisti. In realtà la segale (cereale povero per gente povera) ha permesso per secoli la sopravvivenza ai popoli delle alte montagne.

Una pianta “pioniera” come gli uomini che la coltivavano. Per la sua resistenza al freddo, la segale era la coltivazione esclusiva delle alte valli di montagna. Nella parte bassa della valle era coltivata in coltura promiscua con la vite e in alternanza con il miglio e il panico, che venivano seminati in settembre-ottobre dopo il raccolto della segale. Erano colture in alternanza continua, senza mai lasciare riposare il terreno. Nelle alte valli di montagna, la scarsità di spazio coltivabile non permetteva la rotazione delle colture diffusasi già dal Medioevo grazie all’opera innovativa dei monaci in campo agricolo. Era tutta una cultura contadina, abitudinaria e codifica- ta da secoli, che prevedeva tecniche di aratura e semina a bassa produttività.

Lo stadal, la “casa della segale” per conservarla al riparo dai roditori. Immagini da E. Rizzi “Cucina d’alpe – lavori della terra e alimentazione nella cultura walser” (Fondazione Monti, 2003).

Nel 1553 la Valle Anzasca viene visitata da Joachim de Annono, funzionario del Ducato di Milano, allora sotto il dominio spagnolo, per verificare le condizioni economiche della valle e valutare il carico fiscale sopportabile. Le sue annotazioni sono estendibili alle condizioni di altre valli alpine nel XVI secolo. Ecco cosa scrive:

… detta Valle per il gran freddo del giazzaro predetto, ed ancora perché il Sole per Ottobre, Novembre, Decembre e Gennaro non manda luce alcuna, per la maggior parte in detta valle non produce il vivere di tre mesi l’anno, e ché non si fa salvo che un seminerio, cioè o di segale, o di miglio, o di panico. Perché la segale non si raccoglie salvo di Agosto, o di Settembre, salvo per miglia quattro nel principio di essa Valle in qualche luoghi, dove si semina del miglio o panico, raccolta la segale; vero è che alle volte non può maturare per li mali tempi e freddi. Ho visto ancora in una gran parte di essa Valle che le segale seminate l’an- no passato, non sono alte di presente, chi una spanna, chi poco più; e quelle sono seminate a questo marzo passato, cominciano a pullular sopra la terra e le cirese fioriscono di recente.”

In alto. La trebbiatura della segale con il tresk, il bastone correggiato per separare i chicchi dalle spighe. Quasi una danza.


Archeologia

5. Pietre feconde: gli scivoli della fertilità

Attorno ai nostri paesi e alpeggi si incontrano massi che presentano superfici lisce pro dotte da un lungo scivolamento. Si divertivano i bambini in una “gioconda scivolata”, ma non solo. Risale alla preistoria o comunque all’antichità l’uso, da parte delle donne sterili di scivolare su di esse per propiziare la fecondità. Nell’antichità richiamano a quest’usanza i miti di Hermes (il protettore dei viandanti), Apollo (invocato per la protezione durante il parto) e Cibele (la grande dea della Terra Madre). Gli “scivoli della fertilità” sono diffusi su tutte le Alpi. Anche sui miei monti. Il primo segnalato (1974) è al Monte Zuoli di Omegna: c’è ancora accanto ad un masso con coppelle. Negli anni ’80 del Novecento, Benigno Negri ha coordinato un gruppo di ricerca che ne ha individuati 23 nel Verbano Cusio Ossola. Uno molto bello e facilmente visitabile si trova alla periferia di Malesco in Valle Vigezzo; anche lì accanto ad un masso con coppelle. L’uso propiziatorio degli scivoli doveva essere così diffuso fino all’Ottocento, tanto che la Chiesa invitava a sostituire gli scivolamenti con la preghiera. Più laico fu Giovanni Roggia di Varzo, abile albergatore e maestro di scuola. Nel 1884 all’alpe Veglia, la sorgente di acqua minerale era appena stata scoperta, in occasione dell’inaugurazione del primo albergo “Monte Leone”, tenne un dotto discorso in cui tra l’altro si legge: “Quei poveri tapini che hanno il “mulino” impotente e quelle povere donne che stentano a vedere la “luna rossa “ o che non hanno la buona sorte di avere eredi, invece di andare in pellegrinaggio da una Madonna all’altra e sfregarsi il sedere sulle pietre miracolose cercando grazie, sappiano che con l’acqua minerale che abbiamo qua vicino, si potrà rinvigorire da capo a piedi e far loro avere figli in abbondanza.” Una superstizione ne scaccia un’altra. Cento anni fa come oggi.

In alto:
1.Il “sasso scivolone” di Malesco (Valle Vigezzo). Da: F. Copiatti, A. De Giuli, A. Priuli “Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola” (Grossi, Domodossola, 2003).
2.Roccia con tre scivoli a Pontemaglio (Valle Antigorio).


Storie di montagna

6. Il contrabbando di fatica e di miseria

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 In Val Divedro, a 2.300 m di quota, il Pizzo     Zucchero e il Pizzo Caffè si alzano lungo la  cresta di confine con la Svizzera. I toponimi, accettati dalla cartografia ufficiale, evocano l’epoca del contrabbando storico. A sud è Val d’Ossola, a nord è il Vallese. Un confine vecchio di secoli, ma sempre difficile da comprendere per gente abituata alle stesse fatiche del vivere su alte montagne. Una complicità transfrontaliera
dettata dalla fame e dalla fatica. È su questo confine che il contrabbando è diventato un mestiere,
svolto per secoli da uomini e donne di frontiera, in un territorio come quello ossolano incuneato tra le alte montagne che portano in Svizzera. Una storia di valichi alti e di bocchette sconosciute, sentieri
impercettibili e fatiche notturne, lunghe marce nella neve e sulle pietraie, insidie di sentieri non tracciati. Ricorda un vecchio contrabbandiere: “I pè piatt non potevano farlo.” Dall’inizio dell’Ottocento, quando
Napoleone istituì le dogane, agli anni ’70 del Novecento su questi monti passò di tutto: zucchero, caffè, rifugiati politici e perseguitati razziali, infine le sigarette. Poi tutto di colpo finì in un breve volgere
di anni. Un documentario, in uscita a fine 2023, è in lavorazione e racconta un’epoca. Ne sono autori Nicola Buffoni, Alessio Cusano e Andrea Delvescovo.

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Si intitola provocatoriamente “Il contrabbando non
è peccato”, è un lungometraggio che indaga il fenomeno sociale del contrabbando di fatica e di montagna, che ha interessato per oltre un secolo e mezzo le popolazioni alpine italiane e svizzere eche terminò solamente negli anni ’70 del Novecento,  quando la “bricolla” non era più vantaggiosa. Non solo la memoria degli “spalloni” (perché portavano in spalla il “carico”), ma anche quella dei finanzieri, i “canarini” uguali nei rischi e nella fatica per guadagnare uno stipendio da poveri. Spesso ragazzi del Sud, mandati da Roma a presidiare una frontiera lontana e sconosciuta. Giuliano Olzer (36 anni, calzolaio di Ceppo Morelli in Valle Anzasca) fu ucciso il 6 ottobre 1962 al Passo di Antigine dalla pallottola sparata da un giovane finanziere di 23 anni. Con altri “spalloni” trasportava 83 kg di sigarette.
Giuliano Olzer era diventato papà da pochi giorni e quello sarebbe stato il suo ultimo “viaggio”.

In alto.
1.Contrabbandieri sui monti di Valle Anzasca sul confine con la valle di Saas in Vallese.
2.Giuliano Olzer (36 anni, calzolaio di Ceppo Morelli in Valle Anzasca) fu ucciso il 6 ottobre 1962 al Passo di Antigine dalla pallottola sparata da un giovane finanziere di 23 anni.


Libri

7. “Viaggi nelle Alpi”

Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832) è stato defini- to “l’ultimo uomo universale a camminare sulla Terra”. Prima di lui un tal Leonardo da Vinci.

Uomo di scienza e di poesia (Wikipedia ne dà undici definizioni!) ha segnato la rivoluzione scientifica realizzata dall’illuminismo nella seconda metà del Settecento. Come uomo di scienza fu tra i fondatori della scuola glaciologica tedesca che riteneva l’acqua il principale agente nella formazione delle rocce. In letteratura tutti abbiamo letto “I dolori del giovane Werther” (il tema del suicidio per amore) che ispirò “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo.

Il poema epico “Faust” ha posto l’eterno dilemma tra vendere l’anima al diavolo per avere potere e ricchezza sulla Terra o rimanere fedeli a se stessi e alla propria coscienza. Un dilemma non estinto. Un recente libro “Viaggi nelle Alpi” (Grossi, 2023 con saggi introduttivi di Luigi Zanzi ed Enrico Rizzi) ci offre un Goethe inedito nei resoconti di quattro lunghe escursioni alpine tra il 1775 e il 1797. La lettura ci apre una finestra sulle Alpi di due secoli fa. Ne traggo alcune righe significative.

Quando per un attimo distoglievamo l’attenzione dal cammino e la rivolgevamo a noi stessi e alla compagnia, ci coglieva una strana sensazione. Ci trovavamo nella più desolata contrada del mondo, in un immenso monotono deserto alpestre coperto di neve. Per tre lunghe ore senza incontrare anima viva, una fila di uomini avanzava l’uno sulle profonde orme dell’altro.Per tutto il vasto orizzonte, liscio e uniforme, null’altro appariva al nostro occhio all’infuori del solco che noi stessi avevamo tracciato nella neve. La profondità del fondovalle da cui eravamo saliti si stendeva a perdita d’occhio nella bruma grigiastra. A intervalli le nuvole coprivano la pallida faccia del sole. La neve cadeva a larghi fiocchi stendendo su tutto un velo incessantemente mutevole.”

 

 

In alto
-Goethe nel 1780 c.a., litografia di J. Melcher – F. Bruckmann, XVIII sec.

-Goethe – Sguardo dal San Gottardo verso l’Italia, 22 giugno 1775, bozzetto a china su carta (Weimar, Goethe-Nationalmuseum). Da “J. W. von Goethe – Viaggi nelle Alpi”, Grossi, Domodossola, 2023.