Paolo Crosa Lenz      Lepontica 2    Ottobre 2020

Sommario
1. Foliage contadino
2. Serie storica delle alluvioni a Ornavasso
3. Scoperte nuove pitture rupestri preistoriche
4. Erminio Ferrari (1959 – 2020)
5. Gianni Rodari (1920 – 1980)
6. Giovanni Leoni (1846 – 1920)

Natura

1. Foliage contadino

Il foliage, il cambiamento del colore delle foglie in autunno, è un’attrazione recente. In autunno, quando gli alberi si preparano a perdere le foglie (risparmio energetico inventato da madre natura), la contemplazione di questo momento diventa un’attrazione (melanconia e serenità). Per il mondo contadino di montagna, il foliage (loro non ne conoscevano il nome) era un ennesimo momento di lavoro. Curavano il cambiamento del colore delle foglie di faggio per attendere il momento della loro caduta, poi iniziava il lavoro. La raccolta delle foglie di faggio secche era lavoro faticoso, sapiente e accurato. Dovevano essere cadute di fresco e perfettamente asciutte; si raccoglievano solo quelle in superficie e non a contatto con il terreno umido dell’autunno. Se pioveva erano guai e solo qualche preghiera poteva aiutare. Poi venivano pressate e portate a casa negli scivròn (le gerle a maglie large): erano preziose per la lettiera delle bestie, ma soprattutto per riempire i sacchi di canapa che fungevano da materassi nelle case contadine. Era un lavoro corale di donne e bambini. C’è un’immagine del fotografo novarese Mario Ciceri (1897 – 1974), scattata a Varzo negli anni ’30 del Novecento e diventata iconica in tutta Italia (vincitrice di concorsi e pubblicata sulle riviste illustrate del tempo). Parla da sola.
Nei paesi delle basse valli dell’Ossola, del Cusio e del Verbano vi sono boschetti di grandi faggi a poco più di 200 m di quota. Quegli alberi non dovrebbero essere lì, perché il loro orizzonte vegetazionale va dagli 800 ai 1500 m. Sono lì perché qualcuno li ha piantati come “fabbriche di foglie”. Invece di salire in quota a raccoglierle, pianto l’albero vicino a casa.
È comunque vero che l’autunno è “tempo di colori”. Samuel William King, pastore protestante inglese e rettore del Saxlinghan Nethergate College di Norfolk, dal 8 agosto al 24 settembre 1855 compì un viaggio dal Gran San Bernardo al Passo del Griess con numerose digressioni, tra le quali Macugnaga e il Sempione. Con lui la moglie Emma Fort, “donna di eccezionale spirito e forza fisica” a cui i valligiani offrivano mazzi di fiori, ma soprattutto la mula Mora che portava signora e bagagli del giorno. Il resoconto del viaggio ci lascia una fotografia dell’Ossola di metà Ottocento. Quando penetra in Val Divedro, il reverendo King annota: Le case italiane erano chiare; le facciate con balcone erano ornate a festoni con fasci fiammeggianti di granoturco giallo oro; i balconi soleggiati protetti da grandi tetti sovrastanti erano ugualmente pittoreschi e interessanti, pieni di prodotti messi ad essiccare al sole. Alcuni erano pieni di tabacco, sia in lunghe file coi gambi appesi alla rovescia oppure solo le foglie legate in file; in altri le pannocchie di granoturco liberate dall’involucro erano allineate lungo le balaustre dei balconi in file fiammeggianti. Zucche di ogni sorta, misura e forma che costituiscono una parte importante della loro alimentazione, erano ammucchiate fuori; e per non perdere nemmeno una parte di questa pregiatissima verdura anche le bucce erano appese ad essiccare in lunghe strisce a spirale. Le mele e le pere tagliate in quarti erano legate in lunghi festoni con dell’uva, dei fichi, dei peperoni e bacelli di fagioli, assieme a grappoli di aglio argentato e di grandi cipolle; vi erano anche mucchi di pelli di salame, di canapa e di canapuccia assieme ad altri prodotti di ogni genere che provavano la ricchezza di questa nobile valle non esposta alle distruzioni dei torrenti.
Già le zucche, frutto povero e faticoso. Pianti un seme e cresce da sola. Accanto ai campi e alle vigne, le zuchere rendevano le erbe vecchie un nobile terreno fertile. Oggi ce ne sono più poche perché le rubano. Quando sono grosse (“zucconi” si dice e ce ne sono tanti) sono molto faticose da pulire. Un lavoro da dannati. Mia moglie, quando sono in castigo, mi fa pulire la zucca!


 

Ambiente


2. Serie storica delle alluvioni a Ornavasso

Ho casualmente ritrovato in archivio uno scritto “giovanile” del 1982 relativo alla storia delle alluvioni in Bassa Ossola. Ritorna di attualità in considerazione del turbine meteorologico dello scorso 3 ottobre. Ne propongo una sintesi, emblematica per tutte le comunità di montagna.
La primavera e l’autunno erano tradizionalmente i “tempi della buzza”. Le buzze erano le periodiche esondazioni del fiume Toce o dello Stagalo (il torrente San Carlo in lingua walser) che, conseguenza di periodi alluvionali, segnarono profondamente la storia di Ornavasso.
1328, 1588, 1610, 1663, 1755, 1834, 1839, 1868, 1872, 1900, 1907, 1914 e 1951. Anche 1978, 1987, 1993, 2000, 2020. Non sono un elenco di numeri ma una lunga serie di anni in cui la forza delle acque ha stravolto l’ordine corrente della vita collettiva. Ed è la punta di un iceberg perché solo delle più terribili permane il ricordo o qualche documento scritto, ma delle molte che hanno creato timore o paura il ricordo sarà scritto solo nella memoria delle generazioni che sono passate su questa terra.
Negli statuti di Ornavasso del 1575 i capitoli 36, 48 e 62 sono espressamente dedicati a definire una serie di obblighi e di sanzioni nel caso previsto di inondazioni. Il fatto stesso che un caso simile è previsto e considerato in modo così massiccio negli statuti, indica chiaramente quanto il problema fosse presente e grave, allora più di oggi. Il capitolo 48 si intitola “Delle reparationi, che s’avranno a fare al fiume della Toce, et riale d’Ornavasso”.
Dice: Di più si è ordinato come sopra, che li Consuli siano tenuti, et debbano a spese dell’Università fare che il detto fiume non rompi le rive, o altrimenti dia danno, et che si repari al detto riale, con quei modi, con il quale sarà espediente per il ben pubblico, participandone ancora con gl’uomini di detta Università. Da questo emerge la costanza del problema e la partecipazione collettiva degli abitanti alle opere di difesa e di ripristino. Principio questo della Roida, ovvero del lavoro comunitario prestato gratuitamente.
Negli stessi termini e più marcatamente, il problema viene riproposto più di 200 anni dopo. Il documento, prezioso e ancora tutto da studiare, è la regolamentazione agraria del 1789; sono i “Bandi Campestri” stabiliti dalla comunità di Ornavasso e approvati dal Real Senato nel 1790. Il capitolo 8 dice: Saranno tenuti tutti, e singoli e Fuocolanti di Ornavasso, a scanso delle gravissime spese, che annualmente occorrono farsi intorno alle riparazioni delle strade, ponti, fossi, e sponda del fiume Toce, ed anche del Riale, di concorrere pertanto alle roidi fuocolari, volgarmente dette Roste, in quella quantità di giornate annualmente (sì col carro, quelli che lo avranno, e col personale quelli, che non hanno carro), che le verranno dal Consiglio della Comunità fissate, e tassate in proporzione alle loro forze in proporzione alli Renitenti del carro di lire quattro, e di lire due a quelli del personale, e si avranno per incorsi in detta pena quei Capi di famiglia, che manderanno al concorso di dette roide, figliuoli, donne deboli, o qualunque altra Persona inabile a compiere il suo dovere, e si avranno per renitenti quelli, che non si presenteranno in quel giorno, che ne saranno richiesti, o alla più nel susseguente.
Nell’autunno 1839 circa un terzo delle famiglie ornavassesi rimasero senza tetto di fronte all’incalzare dell’inverno imminente (un prezioso quadro ricorda l’evento). Dopo l’alluvione del 1868, dovuta all’onda di piena di una frana di sbarramento nell’alveo a monte dell’abitato, furono costruiti i possenti argini attuali. Dal punto di vista geologico, lo Stagalo è un torrente “giovane”, cioè è ancora abbastanza attivo nei confronti dell’erosione delle sue sponde. L’attività erosiva è distribuita irregolarmente all’interno dei 10,8 kmq del bacino, con tratti ad alta instabilità che si alternano ad altri più stabili e tranquilli. Su questo influisce senza dubbio l’alta piovosità della zona; la media annua è di 2.200 – 2.400 mm di pioggia (tre volte superiore alla media nazionale) con punte di intensità registrate di 325 mm nelle 12 ore.
Sulle Alpi non vi sono eruzioni vulcaniche o terremoti distruttivi, ma la forza della natura si esprime con le valanghe e le alluvioni. Anche con gli incendi. Uniche risposte sono l’avvedutezza nella cura del territorio e la solidarietà comunitaria. Come la Storia insegna.


 

Archeologia

3.Scoperte nuove pitture rupestri preistoriche.

L’archeologia preistorica dell’Ossola si arricchisce di nuove scoperte: alla Balma del Capretto sopra Croveo, in Valle Devero, su una parete di serizzo, sono documentate venti pitture rupestri schematiche tracciate in ocra rossa. Nella complessa scena, poco visibile, si individua un cane che attacca da dietro uno stambecco e una rarissima spirale. La scoperta è avvenuta nel 2013, ma è stata pubblicata solo quest’anno (immagini e ricostruzioni 3D sul sito www.balmadeicervi.it). I balmi, ripari sotto roccia dove l’uomo preistorico trovava ricovero e protezione, con figure dipinte salgono così in Ossola a tre, con il Balm d’la Vardaiola in Veglia (il primo scoperto) e la famosissima Balma dei Cervi a Crodo. L’arco cronologico a cui questi dipinti su roccia vengono fatti risalire va dal V al III millennio a.C. e confronti vengono fatti con le pitture presenti nella penisola iberica e nella Francia meridionale. Poco distante da Croveo, all’alpe Pontigei, anni fa è stato rinvenuto un frammento di ascia da combattimento in pietra verde risalente all’età del Rame.


 

Personaggi

4. Erminio Ferrari (1959 – 2020)

È morto in montagna, la scorso 14 ottobre, durante un’escursione al Pizzo Marona nell’entroterra verbanese. Abile alpinista e volontario del Soccorso Alpino, era giornalista (curava la politica estera al quotidiano svizzero “La Regione” e aveva seguito le guerre balcaniche) e scrittore, oltre che appassionato di musica.
Nel 1996 aveva pubblicato, per l’editrice verbanese Tararà (inizio di una lunga e proficua collaborazione) il libro “In Valgranda – Memoria di una valle”. Inizia così.
“Un giorno a Velina il tempo si preparava a nevicare fine e il silenzio del corte era ancora più vasto. Qualcosa si vedeva dei Corni: qualche filo di rocce attraverso fessure nella nebbia; poi il Corte Buè, dall’altra parte della valle; e la scogliera sopra Velina alta. Niente altro. Non è il solito silenzio che ci si aspetta di trovare in posti simili: su questa terra il silenzio suona come un destino. Non so quanto buono o malvagio. Destino e basta. Solo il fatto che fossero passati dieci anni dall’ultima volta che ci avevo messo piede, e allora c’era il sole nella mia testa e in cielo e c’era anche il Nino Chiovini; queste cose da sole mi hanno fatto sentire nel respiro lontano e antico di questa Valgrande un suono come di parole perse nel tempo, di destini non compresi e, per un attimo, di disperazione”.
Noi alpinisti siamo gente strana. A vent’anni non pensi, hai solo obiettivi (la parete, la cresta, lo spigolo). A quaranta, quando qualche amico non c’è già più, cominci a pensare, ma stai zitto. A sessanta, quando le forze iniziano a non essere più quelle di un tempo, pensi e ne parli. Parlavo con un amico e dicevamo: con tutto quello che abbiamo combinato, come facciamo ad essere ancora qui? La risposta è stata che forse lassù c’è qualche madonna potente o santo benedicente che guarda giù. Ma anche loro a volte si distraggono. E rimane il ricordo.


 

Personaggi

5. Gianni Rodari (1920 – 1980)

Era nato a Omegna, figlio di un fornaio, l’inventore della “grammatica della fantasia”. Il personaggio è troppo noto e troppo importante nella letteratura per ragazzi (e non solo) per ricordarlo qui. L’amico Marco Travaglini, in una sua comunicazione, mi ricorda una poesia (da “Favole al telefono”, Einaudi, 1962) che mi permetto di offrire in sua memoria.
“In principio la Terra era tutta sbagliata / renderla più abitabile fu una bella faticata. / Per passare i fiumi con c’erano ponti, / non c’erano sentieri per salire sui monti. / Ti volevi sedere? Neanche l’ombra di un panchetto./ Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto. / Per non pungersi i piedi, né scarpe, né stivali. / Se ci vedevi poco, non trovavi gli occhiali. / Per fare una partita, non c’erano palloni; / mancavan la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni, / anzi, a guardar bene, mancava anche la pasta. / Non c’era niente di niente: zero più zero e basta. / C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare, / e agli errori più grossi si poté rimediare. / Da correggere, però, ne restano ancora tanti: / rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti!.”
Avete capito? C’è lavoro per tutti.


 

Personaggi

6. Giovanni Leoni (1846 – 1920)

Nel paradigma di vita di Giovanni Leoni c’è molto dell’Ossola di fine Ottocento, momento cruciale della nostra storia in cui l’Italia, da poco diventata stato unitario, si avviava alla sua rivoluzione industriale con l’età giolittiana. I capisaldi sono tre: l’emigrazione, la letteratura, l’impegno sociale a “fare l’Italia”.
Giovanni Leoni nasce a Domodossola nel 1846 e a 24 anni emigra con il fratello Costantino a Montevideo dove crea la “Leoni Hermanos”, un proficua attività commerciale in tessuti e generi vari. Compra una nave con quindici uomini di equipaggio e naviga le fredde acque della Patagonia trasportando ogni genere di merce. Viaggi in quel “mondo al confine del mondo” tanto di moda oggi. Virginia Maulini così racconta quel periodo in una commossa memoria nel 2001: “Il nonno Costante raccontava che senza l’Ossola nella memoria, senza quel nido di montagne e di gente nel cuore, non avrebbero forse potuto superare le sterminate e fredde solitudini di quei viaggi. Ma c’era titanico l’orgoglio e la capacità, di volta in volta, di mettere a fuoco la meta: l’uleta piena e il ritorno a casa. Sedici anni, lunghi e duri. Anni da pionieri. O si soccombe e si balza fuori dall’esperienza, battezzati e diversi”.
Nel 1886 Giovanni Leoni liquida l’azienda e rientra in Italia dove vive di rendita fino alla morte. In inverno vive a Domodossola, Bologna e Torino dove frequenta assiduamente la borsa valori. In estate vive a Mozzio dove, via via, trascorrerà soggiorni sempre più prolungati fino a stabilirvisi definitivamente.
Nel 1891, durante un viaggio a Roma, scrive la prima poesia dialettale (“L’Olèta”) che invia all’amico parroco di Mozzio, don Gaudenzio Sala. Per oltre vent’anni scriverà poesie mordaci e satiriche in dialetto ossolano con lo pseudonimo di Torototela, a richiamare quei menestrelli girovaghi che nell’Ottocento giravano le piazze accompagnando le loro storie con il suono di una specie di violino ricavato da una zucca vuota. Le sue poesie verranno pubblicate nel 1929 dal nipote Camillo Boni con il titolo di “Rime Ossolane”. Nelle sue poesie, con l’uso del vernacolo come orgoglio identitario locale (in assoluto il più grande poeta dialettale ossolano), la libertà dal bisogno diventa libertà del pensiero. Lui, che aveva visto il mondo e le grandi città, sferzava con pungente ironia le piccole miserie di un mondo provinciale, che si sarebbe aperto solo con la galleria del Sempione e il passaggio dell’Orient Express.
Quasi a compensare i suoi scritti sbefard, vi fu l’impegno nella sezione di Domodossola del Club Alpino Italiano, la sesta costituita in Italia. Il CAI allora fu uno dei centri propulsori per la costruzione di quell’identità nazionale e di “sentire comune” che fu il completamento dell’impresa risorgimentale e del processo unitario. Con lui, presidente della sezione nei primi anni del Novecento, operarono uomini del calibro di Alfredo Falcioni, Giorgio Spezia, Giacomo Trabucchi, Enrico Bianchetti, Giuseppe Barbetta. Questo pugno di uomini costituiva la classe dirigente ossolana del tempo. In questo ruolo Giovanni Leoni fondò la “Pro Devero”, associazione ambientalista ante litteram di straordinaria attualità, e la “Pro Cistella” impegnata nella costruzione di un rifugio sulla vetta della montagna.
Quel rifugio fu il suo capolavoro: inaugurato nel 1901, gli fu intitolato nel 1920, anno della morte. Perché un rifugio sulla vetta di una montagna, oltre tutto priva di interessi strettamente alpinistici? La risposta è semplice e disarmante. Con la costruzione del rifugio “…venne reso agevole di ammirare il vago spettacolo del tramonto e del sorgere del sole da questa cima, così stupendamente situata nel centro dei monti Ossolani e detta a ragione il Righi Ossolano”. Soltanto un poeta poteva concepire la costruzione di un rifugio a quasi tremila metri per un godimento estetico, per unire azione e contemplazione. L’amore per quella montagna è espresso con versi lapidari: “Am disarì ch’a parli par passion, / ma quela l’è la scima pussè bela; / negh su, vardev intorn quand l’è seren / e dopo am savrì dì s’a parli ben”.
Il centenario della morte è l’occasione per avviare un necessario processo di valorizzazione di uno dei protagonisti della storia sociale e letteraria dell’Ossola. Il tutto con un velo di sobria ironia. Lui, uomo ricco e affermato, cantava la fine del suo alter ego poetico con versi assoluti: “La sò fin natural l’era quèla: / fàa ghignà par un sold la marmaia / e murì còm un can su la paia; / pòvar diavul d’un torototela!”.