Paolo Crosa Lenz       Lepontica/11      Settembre 2021

 

Sommario
1. Elogio dello stambecco
2. Speriamo nella tarsòla!
3. Lo scarico degli alpi
4. Guglielmina dell’alpe Serena
5. Il Gruppo Italiano Scrittori di Montagna
6. Angelo Del Boca (1925 – 2021)
7. Lorenzo Scandroglio (1969 – 2021)

 


 

Natura

1. Elogio dello stambecco

Lo stambecco (Capra ibex) è un ruminante selvatico che si nutre di graminacee, ma anche di muschi e licheni,foglie di mirtillo e rododendro. In estate vive a quote di poco inferiori ai 3.000 m, mentre in inverno scende a quote inferiori,evitando però i pendii innevati. Il maschio ha una “barbetta” che può raggiungere i 15 cm e lunghe corna nodose, mentre la femmina ha corna lisce più corte del maschio e non ha barba. In estate, sui monti di Devero e di Veglia, si notano le “nurseries”, branchi di neonati che si riuniscono per giocare accuditi da una o due femmine.
La storia dello stambecco sulle Alpi è una storia di una precaria sopravvivenza. Agli inizi del Novecento era praticamente estinto sull’arco alpino e sopravviveva solo in piccoli branchi sul Gran Paradiso. Fu allora che la casa reale dei Savoia “donò” allo stato italiano (il Regno d’Italia che loro governavano) le loro riserve di caccia sul Gran Paradiso: fu così istituito nel 1922 il primo parco nazionale italiano che permise la sopravvivenza della specie stambecco.
Una riserva naturale unica in Europa. Tutti gli stambecchi che oggi popolano le Alpi in robuste e cospicue colonie vengono da lì. Nel 1969 venne istituita l’Oasi Faunistica di Macugnaga e negli anni successivi vennero reintrodotte coppie di stambecchi (oggi sono circa 120). Tra il 1977 e il 1979 all’alpe Veglia furono reintrodotti 13 capi provenienti dal Gran Paradiso (si racconta che i primi esemplari morirono “di freddo” conservati per breve tempo in qualche freezer della valle). Nel 1983, cinque anni dopo l’istituzione del Parco Naturale Alpe Veglia (il primo della Regione Piemonte) di stambecchi non ce n’erano più. Sono ricomparsi negli anni’90 in seguito a rilasci effettuati dal servizio caccia e pesca del Canton Vallese nella valle di Binn. La condizione di tutela vigilata garantita dai guardiaparco delle Aree Protette dell’Ossola ha portato ad una crescita esponenziale della popolazione, le cui dimensioni sono controllate da oltre trent’anni di monitoraggi scientifici. La montagna, nell’immaginario mediatico, vive anche di stereotipi. Uno di questi è quello del camoscio (ricordate il formaggio del “camoscio bianco”?) come simbolo delle Alpi. Non è vero. Snello ed elegante, il camoscio è tanto animale di bosco ed è presente dai tremila metri al livello del mare: avvistato sulle scogliere di Marsiglia così come nei boschi di fondovalle della bassa Val d’Ossola (si ha memoria di camosci sparati dai
cacciatori dalle piazzole dell’autostrada!). È lo stambecco, una capra selvatica bonaria che non ha paura dell’uomo, l’animale delle Alpi per eccellenza. Decenni di monitoraggi in Veglia e Devero hanno fornito dati che indicano una sostanziale stabilità della popolazione di camoscio ed una crescita strabiliante di quella di stambecco (in quarant’anni da pochi individui ai 250 capi di oggi). All’alpe Devero la situazione si è stabilizzata da alcuni anni e dal 2017 si assiste ad un lieve calo, ma sembra che orami si sia stabilizzata la crescita in tutto il parco. La condizione di tutela assoluta ha permesso un sicuro e stabile ripopolamento dello stambecco sulle Alpi. Tanto che i cacciatori, in un recente convegno a Macugnaga, ne chiedono la riapertura della caccia. Mah!


 

Montagna

2. Speriamo nella tarsòla!

Questa estate la fienagione, sia sui prati di montagna che su quelli di fondovalle, non è andata bene. Il fieno era raiar (rado): lavori tanto e porti a casa poco; ha fatto freddo, ha piovuto troppo, c’è stata la grandine.
Mi diceva giorni fa un vecchio contadino: “Ci sono stati anni che col primo taglio riempivamo la cascina, quest’anno
ne abbiamo già fatti due e la cascina è mezza vuota. Sai, l’erba cresce come vuole! Speriamo nella tarsòla”.
La tarsòla (terzaruolo) è il terzo taglio che si fa in settembre, quaranta giorni dopo l’argorda. È un’erba che si taglia
solo nei prati di fondovalle del fiume Toce, a 200 m., alle spalle del Lago Maggiore. Nei prati di montagna, ripidi
sulle valli laterali dell’Ossola, si fanno solo due tagli e in alta montagna, sopra i 1000 m. può capitare di farne
uno solo. Nei sottili e delicati equilibri dell’economia pastorale alpina, il bestiame che è possibile allevare (unica
fonte di reddito nella tradizione contadina) dipende dalla disponibilità di fieno secco per l’alimentazione invernale.
Tanto fieno, tante mucche, tanto formaggio; poco fieno, poche mucche, poco formaggio! Nelle alte valli
di montagna, alla scarsità di un fieno lavorato “in un’estate di pochi giorni” si ovviava con usi di scambi tradizionali:
era la saverna, lo svernamento del bestiame nelle comunità di fondovalle che disponevano di maggiore quantità di foraggio accumulato.
Ricorda Remo Bessereo Belti in un’accorata memoria su Migiandone scritta nel 1989: “D’inverno, i migiandonesi
che avevano fieno in abbondanza, andavano in Valle Antrona a prendere altre mucche, che là avevano poco fieno; ne godevano il latte e il letame e se non facevano latte, gli antronesi pagavano qualcosa perché gliele tenessero,  restituendogliele in primavera.
L’arrivo e la partenza delle mucche antronesi era segnato dai vari suoni dei campanacci, che sapevano come di festa all’arrivo, e di un po’ di malinconia alla partenza. Insomma, a tenerle e accudirle nelle stalle, si finiva coll’affezionarsi”.
Oggi queste usanze tradizionali sono completamente scomparse e il fieno lo si compra in rotoballe dai prati irrigui della Pianura Padana dove le risorgive permettono anche cinque – sette tagli in un anno. Rimangono i miei vecchi a sperare nella tarsòla.

Montagna

3. Lo scarico degli alpi

È iniziato sulle mie montagne, ma anche su tutte le Alpi, lo scarico degli alpi che avviene tra la fine di agosto e settembre. Per le comunità alpine è un momento di festa perché si tirano le somme di quanto ha reso l’estate in alpeggio e segna l’inizio di un nuovo periodo dell’annata agraria. Gli alpeggi sono le stazioni terminali di un complesso sistema di estivazione delle mandrie: sono a quote elevate (sopra i 1700 m.) e in esse avviene solo il pascolo libero del bestiame senza sfalcio d’erba. Il periodo di inalpamento copre 50 – 60 giorni in luglio – agosto, mentre nelle “montagne” e nei “corti” inferiori (stazioni intermedie tra il villaggio stanziale e gli alpeggi alti) avviene un taglio di fieno. Questi due mesi di febbrile attività che coinvolgeva casari e garzoni, giovani e vecchi, avevano un solo giorno di interruzione per la festa dell’alpe. Quasi ovunque era per la “Madonna di agosto” (il giorno 15) quando avveniva la pesatura del latte che stabiliva la divisione dei prodotti tra il capocasata e i proprietari delle mucche. Feste che a volte finivano in risse: il casaro il giorno prima mandava le mucche a mangiare erba povera che faceva poco latte, i proprietari salivano di nascosto a curarle. Gli alpeggi “alti” di Macugnaga, quelli sopra i 2000 m., sono sette: emblemi e storie di un’alpicoltura estrema, oltre il limite della vegetazione d’alto fusto, condannati alla ricerca di acqua preziosa, schiacciati da rocce e ghiacciai vicini. Sono tutti abbandonati. Un toponimo walser ne esprime l’impresa di pionieri: è chrutere (i meri della bassa valle), i luoghi dove le donne andavano a raccogliere l’erba di rupe, il fieno selvatico. I loro nomi appartengono alla storia degli alpeggi dell’Ossola: Stenigalchi, Hinderbalmo, Galkerne, Montevecchio, Quarazzola, Pedriola e Ligher. Il più alto di tutti è Stenigalchi (2151 m.), oggi raggiunto da una pista quasi impercettibile, lassù tra le rocce a guardare il ghiacciaio e il Monte Rosa imponente. Dice un proverbio walser: Stenigalchi, Stenigotz grosse Hame, wienig Notz (Stenigalchi, alpeggio dal nome grosso. ma dalla resa scarsa). Anche qui, sul versante orientale del Monte Rosa, luoghi splendidi ma alpeggi solo “di memoria”, è arrivato il nuovo uso della montagna: una baita di Hinderbalmo è stata adibita a bivacco escursionistico intitolato ad Augusto Pala; a Roffelstaffel Luigi e Oriana Pala coltivano patate andine e himalayane; tutta l’area è compresa nell’oasi faunistica di Macugnaga che ha permesso la reintroduzione dello stambecco sul versante orientale del Monte Rosa; questi alpi sono collegati da un sentiero naturalistico e didattico allestito dal CAI Macugnaga. Sono le Alpi di oggi e di domani, quelle del passato le possiamo solo conservare nella memoria. Oggi delle migliaia di alpeggi che costellavano i monti dell’Ossola ne sono rimasti poche decine, quasi tutti raggiunti da piste forestali che i pastori (sempre più rumeni o mungitori egiziani o indiani) percorrono su rombanti quod o moto da trial. I caseifici sono moderni, piastrellati e con certificazioni igieniche; la qualità dei formaggi è standardizzata e garantita da protocolli di lavorazione. Un’eccellenza dei miei monti è il Bettelmatt, una fontina prodotta sugli alpeggi alti di Devero e della Val Formazza che esprime tutti i profumi della flora alpina. Pensate: la mattina è erba, il pomeriggio è latte, la sera è formaggio!

 

 


 

Libri

4. Guglielmina dell’alpe Serena

Vi racconto la storia di un uomo e di un libro straordinario. Oscar Lux (1921 – 2007) ha studiato a Torino dove è stato membro della squadra nazionale di lotta greco-romana (sapete, una di quelle cose che fanno tutti!); partecipa alla Resistenza e nel dopoguerra si trasferisce in Val d’Ossola dove svolge la professione nobile di veterinario: curare gli animali e tranquillizzare gli uomini. Con la pensione, si trasferisce in Val Formazza dove dipinge e scrive. Scrive un libro su una donna della Val Grande: Guglielmina Varetta che da bambina inalpava con il padre all’alpe Serena, l’ultimo alpeggio della valle ad essere caricato prima della wilderness di ritorno e del Parco Nazionale. Una vita con momenti amari e dolorosi quella di Guglielmina, che non vi racconto per lasciarvi il dovere della scoperta. Il manoscritto rimane per vent’anni in un cassetto, fino a quando il figlio Carlo (disegnatore raffinato e padre di “Pasqualo”) e il nipote Eugenio decidono di pubblicarlo quest’anno per i tipi dell’editore Grossi di Domodossola. Dico subito una cosa: la letteratura sulla Val Grande è molto vasta, ma questo è un libro unico perché scritto in buona lingua italiana e soprattutto perché c’è dentro il sapere di un uomo che per tutta la vita ha frequentato quei monti ed ha curato animali e uomini. Nel libro ci sono i segreti delle erbe per curare i mali degli animali, le cure per il morso della vipera. Quando in alpe nevica in agosto bisogna radunare subito le mucche perché la neve impedisce loro di aprire gli occhi e possono rotolare a valle. E poi il caffè. “Il caffè era l’unico genere di conforto che il padre di Guglielmina, Agostino alpigiani, non si faceva mai mancare. Non che sull’alpe se ne facesse un uso incondizionato, perché il risparmio era esteso a tutti i prodotti che dovevano essere comprati, non soltanto per le modeste condizioni economiche delle famiglie, ma anche per una sorta di dignità e di rispetto quasi religioso per tutti i beni di consumo. Nella sua parsimonia, l’uomo della montagna non è mai avaro. Ha cura dei propri beni e tuttavia è disposto a condividerli spontaneamente con i suoi simili, specie nella condizione estrema del bisogno, nell’ambiente aspro e severo delle montagne. Se in via eccezionale esiste un vero avaro nei paesi di montagna, questo individuo non è stimato ed è messo alla berlina da tutti; viene schernito, additato come essere spregevole e ridicolo ed è destinato, per disegni occulti della provvidenza, a non avere fortuna. Inoltre si crede che la nomea dell’avarizia perseguiterà per generazioni la progenie di coloro che sono stati considerati avari ed ingenerosi. La parsimonia del montanaro è invece strettamente combinata con la generosità. Chi non è stato invitato alla tavola di un alpigiano a bere del latte e a mangiare un pezzo di pane e formaggio o quanto di meglio in quel momento poteva offrire? Molto spesso più di quanto egli stesso e la sua famiglia si sarebbero concessi.” Oserei dire che è un libro da leggere in compagnia, per andare a memorie sopite e alla scoperta dei dolori nascosti tra i nostri monti, ma anche a timidi sorrisi. Mia moglie me lo ha letto ad alta voce quest’estate in vacanza. È stato un momento bello e ricco.


 

Cultura alpina

5. Il Gruppo Italiano Scrittori di Montagna

Il “Gruppo italiano scrittori di montagna – Accademia di arte e cultura alpina” (GISM) è un’emanazione del Club Alpino Italiano. Analoga emanazione è il CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) che accoglie i più grandi alpinisti non professionisti, la montagna come ideale assoluto e non come professione. Il GISM è nato a Torino (la città dove nacque il CAI) il 14 aprile 1929, su iniziativa di Agostino Ferrari e Adolfo Balliano. Nasce per reagire allo spostamento a Roma ed all’affiliazione al CONI del CAI da parte del regime fascista. Fu una sorta di “militarizzazione” del sodalizio. I fondatori si opponevano all’idea dell’alpinismo come semplice attività sportiva (uomini gagliardi pronti a morire sui monti per la patria) e si ancoravano alle tavole fondanti del CAI per cui l’alpinismo era anche ideale, cultura, valore dell’ambiente di montagna. Oggi il GISM conta centinaia di soci in tutta Italia e contribuisce a tenere saldi i valori dell’alpinismo ideale e della cultura di montagna. Tra i suoi soci ci sono stati Guido Rey, Luigi di Savoia, Salvator Gotta e Dino Buzzati. Per molti anni il GISM è stato presieduto da Spiro Della Porta Xydias (1917 – 2017), alpinista e intellettuale triestino. Poi il suo ruolo è stato assunto da Dante Colli che, lo scorso luglio, ha ricevuto il premio “Pelmo d’Oro 2021” con la seguente motivazione: “L’alpinista – farmacista Dante Colli, salitore di un migliaio di vie in Dolomiti, autore di centinaia di pubblicazioni sulla montagna, protagonista di un volontariato specialistico (premio AVIS), valente amministratore pubblico in campo sanitario e finanziario, presidente attuale del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) nonché storico promotore di opere alpine sulle Dolomiti Bellunesi”. Nella mia terra abbiamo valenti accademici del CAAI (il mitico Tino Micotti e il grande Maurizio Pellizzon) e parecchi soci GISM. Per questo siamo contenti e orgogliosi per il riconoscimento prestigioso al presidente Dante Colli, che rende merito al valore di una vita spesa per la montagna.


 


 

Personaggi

6. Angelo Del Boca (1925 – 2021)

È scomparso lo scorso luglio Angelo Del Boca, il primo e più grande storico del colonialismo italiano. Novarese di nascita, negli ultimi decenni aveva casa estiva a Crodo in Valle Antigorio e lo conobbi nei suoi sereni soggiorni montani come comuni collaboratori con il Centro Studi “P. Ginocchi”, animato dall’infaticabile Marco Mantovani. Angelo Del Boca, giovane partigiano nelle brigate “Giustizia e Libertà”, ebbe due grandi meriti nella cultura italiana. Primo: rivelò i crimini commessi durante l’occupazione fascista dell’Etiopia nel 1935 con l’uso di armi chimiche sulla popolazione civile (erano prodotte anche in Val d’Ossola, alla Rumianca di Pieve Vergonte). Dimostrò anche le atrocità dell’occupazione della Libia (prima di Giolitti, poi di Mussolini) con i campi di concentramento e le deportazioni di massa dalla Cirenaica. Secondo: demolì l’immagine degli “Italiani brava gente”, ovvero la tesi di un colonialismo italiano mite, di un esercito cavalleresco incapace di brutalità, rispettoso del nemico e dei civili. Bugie colossali che nascondevano nefandezze atroci. Nel 1995 Angelo Del Boca si scontrò con Indro Montanelli (“Io c’ero e non ho visto niente”). Quando l’anno dopo il ministro della difesa Domenico Corcione rivelò al Parlamento l’uso delle armi chimiche in Etiopia, il “toscanaccio” (da galantuomo) chiese pubblicamente scusa. Angelo Del Boca fu sempre legato alla mia terra, la Val d’Ossola. Nel 2000 pubblicò per l’amico editore Grossi di Domodossola una sua biografia (“Un testimone scomodo”) e per otto anni contribuì con saggi autorevoli al nostro “Almanacco Storico Ossolano”, officina di studi e di cultura tra i monti. Lo ricorderemo con affetto e stima feconda per il suo coraggio intellettuale e l’esempio di alta onestà culturale. Mi raccontò la sua sofferenza quando la Destra italiana invitava al suo linciaggio. Seppe tenere la barra dritta e questo sia di monito ai nostri giovani.

Pag sx. 1947: Angelo Del Boca con Elio Vittorini e Alberto Cavalieri

Pag dx. 1950: in cordata con Giorgio Bocca sul Ghiacciaio del Gigante

 

 


 

Personaggi

7. Lorenzo Scandroglio (1969 – 2021)

Lorenzo Scandroglio, volontario del Soccorso Alpino e gestore del rifugio “Città di Arona” all’alpe Veglia, è mancato troppo giovane lo scorso luglio. Apparteneva alla stazione di Domodossola del CNSAS ed era anche cinofilo; faceva i turni con il cane alla base dell’elisoccorso 112 a Borgosesia. Con la compagna di una vita Cecilia Cova, brava guida alpina e tecnico CNSAS, aveva gestito anche il rifugio “Myriam” delle ACLI di Milano in Val Formazza. Non solo uomo di montagna venuto dalla città (Gallarate), Lorenzo Scandroglio era anche un intellettuale raffinato e profondo conoscitore della cultura alpina. Aveva lavorato, con il fondatore Enrico Camanni, nella redazione di “Alp”, la prima rivista moderna di alpinismo in Italia, che aveva raccontato le “grandi rivoluzioni”: l’affermarsi del free climbing, l’avvento del boulder, la piolet traction, il nuovo himalaysmo. Fu tra i fondatori di “Letteraltura”, il festival di letteratura di montagna e avventura che si tiene ogni anno a Verbania, sul Lago Maggiore. Ci conoscemmo in occasione della prima edizione quando mi chiamò per aiutarlo a “tappare i buchi” per le defezioni di intervistatori e presentatori. Poi lasciò la mondanità di festival e riviste patinate per andare a vivere in montagna. Penso fosse felice, fino a quando un pomeriggio di luglio, con il sole che faceva brillare i pascoli di Veglia, qualcosa all’improvviso si è rotto nel suo forte corpo di alpinista. A noi resta un ricordo buono.