Paolo Crosa Lenz       Lepontica 32      Luglio 2023

Sommario

1. Omaggio a Cicogna
2. Prasée
3. Il dialetto: un confronto a cento anni di distanza
4. Le incisioni rupestri: scrivere sulla roccia
5. Un povero diavolo tra le montagne
6. Plinio Martini (1923 – 1976)
7. Giuliano Crivelli (1935 – 2021)Elogio di Agaro


Luoghi

1. Omaggio a Cicogna

Cicogna è la “piccola capitale” della Valgrande. È un luogo di confine. Già nell’Ottocento. “A Cicogna, l’ultima Thule delle nostre vallate, nella casa ospitale del cacciatore Pietro Benzi sedemmo ad un pasto frugale.” Così una cronaca alpinistica del 1890. In occasione dei 30 anni di istituzione del Parco Nazionale, questo “omaggio” a Cicogna vuole essere un tributo assoluto alle donne e agli uomini che per secoli hanno vissuto tra questi monti. A loro che ci hanno consegnato una terra aspra e buona che è nostro dovere conservare. Impariamo da loro: la montagna è un bene da lasciare ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. A Cicogna finisce la civiltà degli uomini e inizia la civiltà della natura. Alle spalle è il silenzio della Valgrande, i boschi infiniti, i dirupi selvaggi, l’aquila e i camosci. Cicogna “è” la Val Grande. A Cicogna il vecchio Circolo ARCI “Felice Cavallotti” è memore di antiche passioni socialiste e insoddisfatti bisogni di giustizia (anche fra le montagne gli emigranti di ritorno portarono i sogni di un mondo nuovo!). Nell’Ottocento, Cicogna aveva 1500 abitanti. Oggi ne ha poche decine, isolate lassù, ma alle spalle di Verbania, relegate da una stradaccia impervia. Onore a loro, simbolo di una montagna che “resiste”. A Cicogna non ci sono spazi pianeggianti, i pochi prati rimasti sono ripidi, le case sono aggrappate le une alle altre e separate da stretti viottoli lastricati. È un villaggio di montagna rimasto quello di un tempo. Il paese si svuotava dalla primavera all’autunno: gli uomini emigranti come muratori in Svizzera e Francia, le donne ai corti e agli alpeggi in Pogallo. L’inverno era il tempo della socialità (ancora alla fine degli anni ’40 del Novecento c’erano cinque osterie), dello spalar neve (è rimasta nella memoria la grande nevicata del 1888 quando si usciva all’altezza dei tetti per andare alle stalle), dei lavori artigianali (la produzione di ceste e gerle intrecciando bacchette di nocciolo). Durante il rastrellamento del giugno 1944 Cicogna subì un colpo durissimo: vennero incendiate 78 case compresa la canonica e l’archivio parrocchiale. Gli edifici furono in larga parte prontamente ricostruiti nel dopoguerra, ma quello che non riuscì ai cannoni tedeschi, lo fece il boom economico degli anni ’60 che provocò l’abbandono e lo svuotamento del paese. Per questo rendo omaggio a Cicogna, simbolo estremo di una montagna che dovrebbe morire ma, forse per miracolo di qualche Madonna potente, sempre resiste.

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Val Pogallo, alpe Busarasca. Il parroco di Cicogna don Fiora celebra la Messa per la famiglia Rigoli unica a caricare l’alpe. Un momento estremo di religiosità alpina. (Archivio F. Copiatti)


Una parola al mese

2. Prasée

La prasée (anche praseu in altri dialetti ossolani) è la mangiatoia di mucche e capre nelle stalle: un piano e uno scivolo inclinato di 50 cm addossato ad una parete della stalla dove i contadini mettevano il fieno secco per le bestie. Ad una distanza di un metro o un metro e mezzo un foro permetteva di infilare la cinghia che legava il collo degli animali; questo affinché una mucca prepotente non andasse a mangiare ad altre quello che non gli spettava. Quasi valesse anche per gli uomini! Si sa che il mondo contadino, costretto ad un equilibrio rigoroso e fragile con le risorse della montagna, aveva elaborato regole antiche e non scritte per garantire la sopravvivenza del presente e del futuro. Oggi si chiama “sviluppo sostenibile”, ma per i nostri vecchi erano parole sconosciute. La prasée era l’anello di una catena complessa che vedeva nell’accumulo del foraggio secco (il fieno frutto di due – tre tagli a seconda della quota) il cò, la cima della corda che legava uomini, prati e animali. Il risparmio di un tempo era mettere fieno in la casina (nel fienile); quando la prasée è vuota non c’è speranza per uomini e animali, viene il tempo della “fame nera”. Un anziano contadino, pochi giorni fa mi ha detto al Circolo: “L’è ura da nàa a la prasée” (“È ora di andare a mangiare”). Pensavo, mentre camminavo solo sui monti, che la cosa più bella sarebbe che, sempre, tutti gli uomini, ma proprio tutti, trovino prima o poi una prasée con dentro qualcosa.

Mungitura nelle stalle d’alpe
(Archivi Crosa Lenz e Falicioli)

 


Linguistica

3. Il dialetto: un confronto a cento anni di distanza

Paul Scheuermeier (1888– 1973) è il linguista svizzero che contribuisce a realizzare, tra il 1920 e il 1960, l’AIS (Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale), un’impresa scientifica colossale che impegna i ricercatori in campagne di campo per rilevare le varianti dialettali del mondo contadino. Ideato dai linguisti Jaberg e Jud, ha prodotto 1705 mappe linguistiche che riferiscono le varianti di 407 dialetti romanzi. Sulla carta geografica dell’Italia e della Svizzera di lingua italiana vengono individuati dei “punti” numerati corrispondenti a precisi villaggi nei quali, sulla base di un questionario standardizzato, vengono registrate le varianti linguistiche. In Val d’Ossola i “punti” dell’AIS sono sei: Trasquera 107, Ceppo Morelli 114, Antronapiana 115, Premia 109, Ornavasso 117, Malesco 118. Il progetto scientifico, al confine tra linguistica e documentazione folklorica, ha prodotto poi il Bauernwerk curato dallo stesso Scheuermeier, pubblicato in due volumi tra il 1943 e il 1956 e tradotto in italiano nel 1980 da Longanesi (Il lavoro dei contadini – Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza). I due volumi costituiscono l’opera fondamentale e più completa sulla civiltà rurale in Italia, con la descrizione scientifica dei processi di lavoro e degli strumenti utilizzati, disegnati da Paul Boesch e documentati da 873 straordinarie fotografie dello stesso Scheuermeier. Oggi il progetto AIS, the digital turn, promosso dall’Università di Zurigo, vuole confrontare l’evoluzione di 50 dialetti di area lombarda a cento anni di distanza dalla prima inchiesta. Per gli appassionati info libere agli indirizzi navigais.pd.istc.cnr.it e www.ais-reloaded.uzh.ch.

 

 

In alto
– Paul Scheuermeier a Ornavasso nel 1923.
– L’informatore Antonio Longo Dorni di Ornavasso (11 settembre 1923).


Archeologia

4. Le incisioni rupestri: scrivere sulla roccia

L’alpe Cama è un grande alpeggio ricco di pascoli e acqua sulle montagne della Valle Antrona. Un luogo soleggiato, esposto a sud e in posizione aperta sulla valle. Qui, un bravo ricercatore, Bruno Pavesi di Villadossola, scoprì nel 1986 una grande roccia con incisioni rupestri che testimonia un’antica presenza umana nella valle. Sopra Montescheno, nella valle della Brevettola, è stata riconosciuta una roccia con numerosi affilatoi, profonde incisioni parallele in cui venivano affilati strumenti da taglio in pietra o metallo. La “via del sale” che probabilmente percorreva la valle per condurre in Vallese e l’affioramento di filoni di ferro e oro depongono per una frequentazione antica di questa valle alpina. La roccia incisa dell’alpe Cama è detta localmente “pietra dul Merler” dal nome dialettale con cui viene indicato il gioco del filetto, quello rappresentato sul retro della dama. Sulla pietra trovante di laugera sono fittamente incisi molti segni con valore simbolico: coppelle, affilatoi, trie e filetti, dischi solari, quadrati magici, cruciformi e stelliformi. Nell’impossibilità di datare cronologicamente il masso, il cui utilizzo dovette protrarsi per molti secoli, gli studiosi ascrivono i segni sulla roccia al generale fenomeno delle incisioni rupestri con cui l’uomo preistorico entrava in contatto con le divinità. Un altro masso inciso molto famoso è quello dell’alpe Sassoledo (1520 m), sulle pendici del Pizzo Marcio in Val Vigezzo, lungo l’itinerario di accesso alla Valgrande. Tra le incisioni spicca l’uomo–albero che ha ispirato il logo del Parco Nazionale Val Grande. I piedi a terra e le braccia alzate al cielo ad unire il terreno e il divino, il luogo degli uomini e la casa degli dei.

In alto

– L’uomo-albero, da trent’anni logo del Parco Nazionale Val Grande.
– Frottage della pietra incisa realizzato dal Gruppo Archeologico di Mergozzo nel 1986.

La “Pietra dul Merler” dell’alpe Cama.
Da: F. Copiati, A. De Giuli, A. Priuli “Incisioni rupestri nel Verbano Cusio Ossola” (Grossi Edizioni, Domodossola, 2003).


Tradizioni popolari

5. Un povero diavolo tra le montagne

Per gli uomini di montagna, il diavolo è una presenza viva e costante nella quotidianità del lavoro nei campi o in alpeggio. La mentalità dell’homo alpinus è estremamente semplificata: alle forze diaboliche (il male) si contrappongono le forze benefiche (il rito e la preghiera, Dio e i santi). Diciamo subito che sulle Alpi il diavolo è un po’ un “povero diavolo”. Nelle fiabe e nelle leggende popolari non riesce a concludere un gran che; sia che voglia distruggere un paese con un masso gigantesco o conquistare un’anima, alla fine rimane sempre fregato. È diffuso e significativo il motivo del diavolo che aiuta il montanaro chiedendo in cambio l’anima del primo che incontra, ma ul Scior Ciapin incontra una pecora o una capra. Questa inconcludenza ingenua del diavolo ossolano è bene espressa nei versi di Torototela (Ul Sass dul Diavul) dove, in un alpeggio sopra Crodo, pone inutilmente l’assedio ad un peccatore pentito che si è rinchiuso in una baita. “Com tuta la so pressa ul Scior Ciapin / us trova sarà fora e lui furiós / u tenta da passò pal finestrin, / ma u vegh che la feràa la fa la Cròs; / u va sul tecc per infilà ‘l camin / ma ugh toca tornà indrè pussè rabiós; / ul pecatór pentì, per so disdeta, / u brusava una rama benedeta!”. (Con tutta la sua fretta il diavolo / si trova chiuso fuori e furioso / tenta di passare per il finestrino, / ma vede che l’inferriata fa la Croce; / va sul tetto per infilare il camino / ma deve tornare indietro arrabbiato; / il peccatore pentito, per sua disdetta, / bruciava un ramo benedetto.) Compaiono in questa poesia i “riti di difesa” dagli attacchi del maligno che in Ossola sono sostanzialmente quattro: l’acqua benedetta, il sale e le croci di cera, i fiori di S. Giovanni. Nel libro “Leggende delle Alpi” (Grossi Edizioni, Domodossola, 2011) ho pubblicato diciassette leggende sul diavolo, significative di un patrimonio molto più corposo. Oggi, mi dicono, vanno di moda gli esorcisti e il “ritorno” del diavolo su cui vengono prodotti saggi e docufilm proiettati in sale cinematografiche. Provo simpatia e comprensione per i poveri diavoli alpini delle mie leggende, condannati sempre alla sconfitta e incapaci di fare del male. Diverso è per i “diavoli moderni”, spesso in giacca e cravatta e annidati dietro scrivanie potenti. Condannano poveri e derelitti ad un inferno sulla Terra, ignari che possa esistere un bene oltre il male.

“Il ballo del diavolo” e “Il diavolo e la strega”
(Disegni di Pietro Crosa Lenz da P. Crosa Lenz “Leggende delle Alpi”, 2011)


Personaggi

6. Plinio Martini (1923 – 1976)

Plinio Martini è stato uno dei più grandi scrittori della Svizzera italiana nella seconda metà del Novecento. Non l’ho conosciuto ma ho letto i suoi libri (e li leggo ancora!). Fece il maestro di scuola, l’insegnamento come mezzo per rendere migliore il mondo. Fu socialista (in una Svizzera che, quando giocava Italia–Russia, tifava per la Russia). Difese sempre la sua terra: le valli ticinesi povere in una Svizzera ricca. Fra le sue molte opere spiccano due capolavori: “Il fondo del sacco” (1970) e “Requiem per zia Domenica” (1976). “Il fondo del sacco” è un testo che è diventato fondamento dell’identità ticinese e ha raccolto l’urgenza di una memoria che stava svanendo. Racconta la storia di un uomo che abbandona giovane le povere montagne del Ticino per emigrare in America da dove ritorna benestante e solo, con il ricordo di una ragazza lasciata. “Io a Cavergno sono tornato proprio per quel ricordo, e per levarmelo di testa forse devo parlarne una volta fino in fondo, a cominciare da capo per mettere insieme quello che abbiamo patito qui prima di partire, la nostra vita di allora, le bestie il fieno l’alpe il letame il male di schiena, e poi il buono, perché a essere giusto devo dire che abbiamo avuto anche di quello: forse mi può far bene a vuotare il sacco fino in fondo”. È il tema della letteratura del secondo Novecento (Cesare Pavese ne La luna e i falò); la grande domanda irrisolta del migrante (“Ho fatto bene a lasciare questa mia povera terra o avrei dovuto rimanere per renderla migliore?”). Sono domande che si pone solo chi ha conosciuto il mondo. Andai anni fa a vedere la casa tra i boschi dove, sul tavolo di pietra sotto il pergolato, Plinio Martini scrisse con la Olivetti quel libro. Dita che picchiavano sui tasti, quasi come un riscatto. Mi sentii a casa.

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1961 – Plinio Martini con Vincenzo Snider, suo primo lettore e insegnante alla Magistrale di Locarno.
1964 – Plinio Martini a Foroglio con i figli Luca e Lorenzo. (Archivio Alessandro Martini


Personaggi

7. Giuliano Crivelli (1935 – 2021)

Giuliano Crivelli, nato a Novara ma diventato “grande” in Ossola, fu uno degli artisti più versatili e innovativi nel panorama dell’arte nella seconda metà del Novecento. Amava e suonava il jazz come grande musica libera, dipingeva in molti stili e con tecniche varie, realizzò sculture e fu grande insegnante. Quest’estate una mostra a Casa De Rodis in Domodossola espone molte sue opere e un libro, curato dall’amico Francesco Maria Ferrari (“Giuliano Crivelli – ritratto d’artista”, Grossi Edizioni, Domodossola, 2023) ne racconta il percorso umano e artistico. Due cose ricordo di lui. Negli anni ’90 del Novecento dipinse un ciclo di quadri dedicati ai Corni di Nibbio, un mondo “estremo” e di confine tra l’Ossola delle industrie e la Valgrande della natura. Insieme, lui con il pennello e io con la penna, realizzammo un bell’articolo per la rivista “Le Rive”. Andai a trovarlo nella sua casa di Trontano: lui mi spiegò i quadri e io gli indicai i nomi di vette, creste e bocchette dipinte. Qualcuno mi dice che sono quadri “inquietanti”, come lo è l’estremo, un paesaggio aspro che forse solo gli alpinisti possono amare. Nel 1979 Giuliano Crivelli realizzò, nella piazza della stazione di Domodossola, un monumento alla Repubblica dell’Ossola. La metafora dell’araba fenice, simbolo di una libertà che rinasce da ogni dittatura. Rappresenta il sogno di un’Italia libera, repubblicana, democratica, portatrice e garante di diritti per tutti. Discussi a lungo con lui di questi significati e, ogni volta che vado a Domodossola, vado a dargli un’occhiata. Un’ultima cosa. Nel 1993 Giuliano Crivelli illustrò un libro straordinario e oggi introvabile (Paolo Bologna “Non solo pietre” Rizzardi, Domodossola). Raccontava di una valle alpina che non era solo cave e denaro, ma anche boschi, rocce e animali selvatici. Una valle di libertà

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Giuliano Crivelli alla Biennale di Venezia 1962.
I Corni di Nibbio, olio su tavola, 1998. Da: F. M. Ferrari “Giuliano Crivelli – ritratto d’artista” (Grossi Edizioni, Domodossola, 2023.)