Paolo Crosa Lenz       Lepontica/18      Aprile 2022

Sommario

1. Elogio dei terrazzamenti
2. Sgerbi
3. “L’aratura a Miazzina”
4. “Poca roba”
5. Don Pietro Silvestri (1931- 1992)
6. Madeira 2022- Pico Ruivo 1861 m
7. “Sentieri dell’Ossola e Val Grande”


Montagna

1. Elogio dei terrazzamenti

I terrazzamenti sono uno dei grandi capolavori degli uomini di montagna: muri di pietra “a secco” (senza materiali leganti, ma stabili per gravità) riempiti di terra da coltivare. Un modo per trasformare i ripidi versanti montuosi di una montagna in pianura. Gli uomini costruivano i muri, le donne li riempivano di terra, portavano il letame per concimarla, seminavano e raccoglievano. Questo in tutto il mondo delle “terre alte”; sulle Ande per le patate, in Asia per riso e orzo; in certe isole dell’Atlantico per piantarci i banani; sulle coste del Mediterraneo per la vite; sulle Alpi per segale e patate. In certi corti della bassa Val Grande, addirittura per i castagni da frutto per impedire che i ricci rotolassero a valle. Altro che “muraglia cinese”.
Nel XVI secolo il cuore dell’economia rurale alpina rimasero gli alpeggi, ma avvennero due innovazioni; le colture su terrazzamento per i cereali poveri di montagna e la diffusione della coltivazione del castagno (alternativa produttiva alle misere peschiere del fondovalle).
Un bravo ricercatore anzaschino, Alessandro Zanni, si pose la domanda su quanti fossero i terrazzamenti in Valle Anzasca. Con pazienza e caparbietà fotografò i terrazzamenti di Castiglione in inverno, quando la neve si scioglie sui muri a secco, ma rimane sui piani anche se abbandonati. “Vedi le linee bianche sulla montagna, pongono enigmi e suscitano domande”. Ripeté l’operazione per Calasca e con un complesso calcolo di stima arrivò ad un risultato: 200 chilometri di terrazzamenti. Solo tra Calasca e Castiglione. Mi disse un giorno: “Vedi, non sapremo mai chi li ha fatti, i nomi degli uomini e delle donne che li hanno realizzati. È come per gli alpeggi: pensa a tagliare il bosco, strappare le radici, seminare erba, poi costruire casère e stalle. Ci vuole un lavoro infinito. Una pazienza infinita.”
Oggi questo immenso patrimonio rurale, baluardo di difesa idrogeologica, è completamente abbandonato, ma pionieristiche esperienze di resilienza tentano di impedirne la perdita. In Valle Antrona, un’esperienza di associazionismo fondiario sta portando al recupero di terrazzamenti a fine conservativo e produttivo grazie a progetti promossi e realizzati dalle Aree Protette dell’Ossola. I Parchi Naturali servono a qualcosa!
L’associazionismo fondiario (opportunità legislativa offerta dalla Regioni Piemonte) permette di accorpare minuscoli fondi per offrire ad imprese giovani cospicui terreni da coltivare. Ha anche un alto valore culturale: supera il tradizionale individualismo contadino (per cui un metro di terra era oro!) per arrivare a nuove forme di utilizzo collettivo della montagna. Quasi un ritorno moderno alle esperienze comunitarie dei primi popolamenti alpini nel Basso Medioevo.
Inverno sui terrazzamenti ciclopici nella bassa Valle Anzasca


Una parola al mese

2. Sgerbi

Ci sono parole, nei dialetti della mia valle, che sono difficili da scrivere e da capire.
Sgerbi si pronuncia tra la “sc” di sciare e la “g” di gerla.
In italiano viene tradotta in “gerbido”, ovvero il terreno incolto, una terra prima curata e coltivata ed oggi abbandonata a se stessa.
Niente a che fare con la “wilderness di ritorno” (il Parco Val Grande docet!), la natura che si riprende libera una montagna dopo secoli di civiltà rurale montana. Il sgerbi non ha niente di nobile, è solo abbandono. Dove un tempo, nella pianura fertile e bonificata della valle del Toce, c’erano campi e prati, vigneti a toppia (sotto cui cresceva una magra erba preziosa), oggi il sgerbi sta crescendo.
In campagna come in montagna. Tutte le campagne di fondovalle delle Alpi hanno subito in questi decenni profonde trasformazioni.
Definitivamente scomparse le colture tradizionali (chi pianta più segale o frumento?), sono avvenute tre trasformazioni: un nuovo utilizzo della terra a fini imprenditoriali (piante acidofile, mais per il mangime bovino, un po’ di fieno da vendere); pochi appassionati legati ad un cordone ombelicale che non vogliono recidere (sono uno di loro!) e che curano pochi campi solo per non “lasciarli andare”; il sgerbi che cresce e diventa sempre di più. Eppure, vista dai monti, la valle sembra ancora “bella”, con grandi macchie di verde tra le zone industriali in espansione.
Condivido la gioia di chi, in una campagna ancora un po’ silenziosa tra lo scorrere di treni e autostrade e nella pace tra le catene dei monti, pota una vite o un albero da frutto, pulisce un prato ormai inutile, taglia un’erba per tenere pulito.
Combatte il sgerbi che non è una buona parola

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Pittura

3. “L’aratura a Miazzina”

Mi ha sempre affascinato questo quadro di Achille Tominetti (1848 – 1917), pittore naturalista lombardo molto attivo nel Verbano tra fine Ottocento e primi Novecento.
“L’aratura a Miazzina” (olio su tela, cm 90 x 150) è esposto al Museo del Paesaggio di Verbania e fu presentato la prima volta alla IIa triennale di Brera nel 1894. La composizione del quadro vede le due donne che trainano l’aratro (come il “pio bove” di Carducci), mentre dietro si vedono i monti del Lago Maggiore illuminati dalla luce soffusa del tramonto.
Non vi sono animali, solo contadini che lavorano, donne che tirano con fatica e in silenzio. Un lavoro da fare per poi seminare. L’immagine di un mondo che non c’è più.

Mi dicono i critici dell’arte che nel dipinto non c’è denuncia sociale: è solo un bel soggetto.
La fotografia di un mondo scomparso. Forse per questo è prezioso come molti altri di Tominetti.
Penso al “Ritorno all’ovile”, dipinto a fine Ottocento ed esposto nel 1979 a Verbania.
Sono i due temi “forti” del pittore: l’agricoltura e l’allevamento ritratti nella natura. Una fusione armonica tra lavoro dell’uomo e ambiente.
I due pilastri dell’economia delle valli nell’entroterra di Verbania e in Val d’Ossola. Anche qui, preziose immagini di un mondo che ha concluso il suo destino storico…

 


Poesia

4. “Poca roba”

Remigio Biancossi (1917 – 2003), il “vecchio prete di montagna” di Valle Antrona e Bognanco scrisse una trentina di libri di poesie e prose nei quali racconta le bellezze della natura alpina e un mondo rurale capace di ridere di se stesso. Offro questa poesia (Nell’angolo del camino, 1978) come auspicio di buone e “leggere” feste pasquali.

 

In valle Vigezzo
c’é un piccol paese,
vicino al Melezzo,
con gente cortese:
Zornasco si chiama;
qui nacque una storia,
non priva di gloria.
Allora il curato
un ciuco teneva
che un po’ malandato
a stenti reggeva
le dure fatiche;
per far molta strada,
si sa ci vuol biada…

 

Al ciuco affamato,
gloriosa la gente,
un nome azzeccato
gli diede, sapiente;
e fu: «Poca Roba».
O caro asinello,
che nome a pennello!
Un giorno il pievano
discende a Novara;
da bravo cristiano
in Curia prepara
la Visita Sacra
e mette a puntino
persin lo spuntino.
«Quel giorno, Eccellenza,
fagiano, salame?
O fa penitenza?
non faccia poi fame!».
«Per me? poca roba:
Curato, il Signore
Vuol fede ed amore».
E viene ammazzato
per Sacra Eccellenza
il ciuco affamato;
la grama esistenza
finisce in ragù:
c’é qualche ghignetto,
ma tutto é perfetto… .
Il Vescovo parla
tra piatti asinini;
nessuno più ciarla,
qui regnan gli inchini.
Gli chiede il curato
con voce amorosa:
«ancora qualcosa?».
«Oh, basta, pievano,
tre volte ne ho preso…
che piatto montano!
ma il ventre ben teso
detesta il Signore:
lo dicon i Santi,
invitti giganti».
Ma dopo un mesetto
il prete scompare
da quel paesetto
e senza gridare,
per altra parrocchia,
in cieca ubbidienza
a Sacra Eccellenza.
Addio paese
sorgente dai prati,
con gente cortese
con ciuchi ammazzati
per un malinteso!
addio Vigezzo!
addio Melezzo!
Castigo tremendo
dal giorno sì infausto,
nessun reverendo
né ciuco da basto
resiste in parrocchia;
e voi ci credete?
leggenda da prete.

 


 

Personaggi

5. Don Pietro Silvestri (1931- 1992)

 

Ci sono nomi che, nel mondo dell’alpinismo, prima o poi ritornano. A trent’anni dalla scomparsa, ricordo qui don Pietro Silvestri (1931 – 1992); uomo di montagna e di natura, oltre che sacerdote e parroco premuroso nelle parrocchia di Monteossolano (dal 1955) e di San Marco in Val Bognanco. Uomo dalla personalità scolpita e dalle profonde capacità organizzative, si affermò nell’ambiente alpinistico locale sia come responsabile della Xa Delegazione “Valdossola” del Soccorso Alpino, sia come consigliere nazionale del Servizio Valanghe Italia nel cui ruolo portò la segreteria nazionale a Domodossola.
Pietro Silvestri fondò lo “Speleo CAI Domo”, affiliato alla Società Speleologica Italiana, che promosse l’esplorazione delle modeste cavità ipogee ossolane contribuendo in modo rilevante alla realizzazione del catasto nazionale. Sue sono le esplorazioni della “Tana dei Cucitt” in Valle Anzasca (Calasca), ma soprattutto le attente indagini al lago Kastel e alle zone carsiche dei laghi del Boden.
Sempre sua la proposta lungimirante (ancora oggi disattesa!) per la realizzazione di un giardino botanico alpino al lago Kastel in Val Formazza.
Lo ricorda Rosario Mosello su “Oscellana”.
“Nel corso degli anni Settanta (del Novecento, ndr) gli studi di Silvestri si indirizzano sulla fenomologia carsica presente in una ristretta fascia di territorio in alta Val Formazza, in Val Toggia in prossimità del confine svizzero. Ad una quota compresa tra i 2.200 m e i 2.400 m tra la sponda orientale del lago Toggia e il bacino del Kastel, la presenza di una modesta quantità di calcari e gessi dà luogo ad una particolare manifestazione di carsismo … L’entusiasmo di don Pietro riesce a coagulare l’attenzione di studenti e professionisti che, a titolo del tutto gratuito, danno inizio ad una singolare collaborazione, battezzata come “Laboratorio Ricerche Domodossola” (poi ISAI) … Una ulteriore azione intrapresa da don Pietro riguarda la valorizzazione delle acque solfato arsenicale ferruginose di Vanzone San Carlo (Valle Anzasca), la cui origine e storia sono strettamente legate alle miniere dei Cani ”.
Con queste parole, lo ricordò Paolo Bologna nel 2004: “Appassionato di montagna e di speleologia, prese subito a frequentare la sezione del CAI domese in seno alla quale istituì, coadiuvato da Sergio Novaresi, un Gruppo Speleologico. Fu una piacevole novità per alcuni di noi accompagnare spesso don Pietro nelle sue esplorazioni di “alpinismo all’ingiù” a certe cavità o grotte che lui individuava, o studiare percorsi carsici di certi torrentelli di Formazza e di Pojala, o calarsi (marzo 1956) nella ‘Tumba di Cucitt’, avvolta da antiche leggende, sulla montagna di Castiglione in valle Anzasca.”

 


 

Montagna

6. Madeira 2022 – Pico Ruivo 1861 m

Certo che gli alpinisti sono gente strana. A volte fanno migliaia di chilometri per salire una montagna, arrivano a sera “pasiati” (sfiniti) e poi sono magari contenti di quello che hanno fatto. Eravamo quattro amici all’osteria a parlare di montagne.
Dicevamo: quale sarà la montagna più strana e stupida del mondo? Forse una che viene su diritta dal mare? Forse, per dirla con Dante, la “montagna bruna” che vide Ulisse prima di andare a fondo?
L’abbiamo trovata e ci siamo andati.
Si chiama Pico Ruivo; si trova nel massiccio montuoso centrale dell’isola di Madeira, nell’Oceano Atlantico, a 545 km dalla costa africana.
È alta 1861 m: per noi delle Alpi sono quote da ridere, ma vista dal mare fa la sua impressione.
Ovviamente, noi “alpinistoni” l’abbiamo presa dal versante più impegnativo, dall’altra parte una strada arriva a 300 m dalla vetta.
L’abbiamo “assediata” per due giorni perché c’era l’esercito a chiudere la strada di accesso … per neve!
Sono sei più sei km per 1.000 m di dislivello, ma parti da 1839 m e arrivi a 1861 m. Sentieri tagliati nella roccia e quasi sempre protetti, tunnel nella montagna, scalette di ferro che superano strapiombi e catapicchi. Abbiamo capito una cosa: esistono montagne strane, non esistono montagne stupide.
Poi abbiamo anche camminato nel vento a pelo d’oceano. Poi la “compagnia del fiasco” è tornata a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Escursionismo

7. “Sentieri dell’Ossola e Val Grande”

L’editore Grossi di Domodossola, a quasi trent’anni dalla prima edizione (Ia 1995, IIa 2008), ripropone la scoperta delle montagne dell’Ossola allargando lo sguardo alla Val Grande in una nuova versione riveduta e aggiornata.
In tre decenni molto è cambiato: la segnaletica è migliorata, ma gli eventi meteorologici estremi, un esempio è stata l’alluvione dell’ottobre 2019, hanno in alcuni casi modificato la rete sentieristica.
È cambiata anche la frequentazione della montagna con l’emergere di fenomeni nuovi: la diffusione del cicloturismo (e bike e mountain bike), il proliferare delle vie ferrate, il moltiplicarsi degli ultra trail, l’ideazione dei “chilometri verticali”, la riscoperta dei “cammini”. Nonostante questo. il libro conferma il valore dell’escursionismo lento come nobile modo per scoprire il mondo, se stessi e gli altri.
Il libro offre la Val d’Ossola e la Val Grande a piedi: 50 escursioni in una valle tutta da camminare per stupirsi delle bellezze della natura e capire la civiltà degli uomini di montagna. Un’occasione unica per penetrare a fondo l’anima di queste montagne, per “sentire” il vento delle valli.
Le due componenti dell’escursionismo, l’azione e la contemplazione, sono complementari l’una all’altra: si prova la sensazione di benessere fisico, il piacere del corpo in movimento e il piacere di guardare il mondo dall’alto, lo stupore sempre nuovo davanti alla bellezza della natura: la parete Est del Monte Rosa, il Vaccareccio di Veglia, l’alpe Devero e la Val Buscagna, la Cascata del Toce, gli orridi di Antigorio, la dolcezza di Vigezzo, i boschi della Val Grande.
Le valli e le montagne dell’Ossola, nella loro variegata complessità ricca di contrasti, offrono un terreno privilegiato per un escursionismo fatto di lunghe camminate e ampi orizzonti.
In pochi chilometri si passa dalle linee dolci dei laghi prealpini, grande vista dal Massone o dal Faiè, all’imponenza dei Quattromila: il Monte Rosa è onnipresente, ma anche il “Trittico del Sempione” (Weissmies, Lagginhorn, Fletschhorn). Dagli ulivi del Lago Maggiore ai ghiacciai ormai smunti della Val Formazza, dai vigneti di Montecrestese alle giogaie assolate e selvagge della Valle Antrona: linee dolci e paesaggi in verticale separati da un battito d’ali. Solo 17 km separano Domodossola, 270 m, dalla Weissmies, 4030 m: la pianura urbanizzata e l’alta montagna.
Certo, camminare è importante. “Se gli uomini camminassero di più, il mondo sarebbe migliore.” Recitano i versi del poeta. Ma è importante anche il “dove” si cammina, per andare a vedere “cosa”.
Sui sentieri e sulle montagne dell’Ossola si può vivere ancora l’“affreuse solitude” (solitudine terrificante) sperimentata dai primi esploratori del Settecento.
Vi sono luoghi dove non va mai nessuno. E la sera, al ritorno dopo una giornata di cammino, potrete incontrare un vecchio montanaro che vi regalerà un saluto tutto ossolano. “Alegar”: siate allegri.