Paolo Crosa Lenz       Lepontica/17      Marzo 2022

Sommario

1. Lassù, le ultime
2. Arsunà
3. Il mercante di capelli
4. Livia Pirocchi (1909 – 1985)
5. Maria Peron (1915 – 1976)
6. Maria Teresa Saglio (1926 – 2018)
7. “Alpeggi delle Alpi”


Montagna

1. Lassù, le ultime

La montagna del Novecento era la montagna delle pastore. Sono state le donne le protagoniste dell’ultima stagione rurale sui monti dell’Ossola. Gli uomini erano a lavorare “in piano” (a tetto, in fabbrica) oppure emigranti. Erano le donne che percorrevano i dossi e i costoni a fare erba, che si piegavano sugli orti roncati a coltivare patate, che lavoravano il latte per produrre burro e formaggio, che portavano il fieno con i scìvròn.
Sono loro che “portavano”: erba e fieno, le corde dei boscaioli, la legna per il fuoco, il burro e il formaggio al piano, il cibo agli operai che costruivano le trincee della Linea Cadorna.
Le donne “spazzavano” la stalla e pulivano le rungie, le rogge che conducevano l’acqua per gli animali e la fertirrigazione, prima dell’avvento del tubo di plastica nero. La sera, dopo una giornata che non era mai finita, si riunivano nelle casère per filare e faa vela, cioè a chiacchierare e a far passare il tempo; era il momento dello svago in cui si manifestava prepotente il bisogno di comunicare: si raccontavano le vicende degli alpeggi, si narravano le favole che si tingevano di leggenda e le più giovani sussurravano i primi amori. Nel 2007 una brava ricercatrice di storia orale ha scritto un libro straordinario sull’universo femminile nella Bassa Ossola raccogliendo preziose memorie di vita e di lavoro (Virginia Paravati, Aspettando la luna nuova). Erano gli anni del passaggio dal lavoro all’alpe al lavoro in fabbrica.
Il libro, frutto di interviste realizzate con rigore scientifico, ruota attorno alla figura di Emma, ostessa della “passerella” sul Toce.
Il fiume come simbolo di passaggio tra due campagne e due montagne, il fiume con una naturalità che, col suo lento scorrere, racconta storie di uomini e soprattutto di donne. Una di loro ricorda: “All’alpe sono andata che avevo tredici anni, quasi quattordici, nel 1934-35. Andavo su da sola… da sola con due sorelline. La mamma stava giù, per via della campagna e veniva su ogni tanto. Andavo su all’Ultusvendi in giugno, verso il 6, 7 o 8, prima della metà e stavo su fino alla Madonna del Boden, a settembre.
Anzi, dopo che le mie sorelline scendevano, io stavo ancora un quindici giorni da sola… Ero su con due mucche e un vitello, perché avevo già le due sorelline da guardare. Io avevo quattordici anni e le altre una quattro anni e l’altra due. Ogni tanto arrivava la mamma, facevamo quello che potevamo! Io mungevo, facevo da mangiare: facevo i frigai a mezzogiorno, alla sera riso e latte, alla mattina caffelatte, ma sempre frigai a mezzogiorno… Facevo anche il burro. Noi non vedevamo nessuno, vedevamo al lunedì mattina passare i boscaioli che andavano a tagliare più in alto e al sabato che scendevano. Si potevano contare le persone che vedevamo. Quando eravamo all’alpe, l’unica festa che facevamo era per Santa Marta, a fine luglio.
Al pomeriggio si festeggiava perché è la santa protettrice dai morsi delle serpi e allora non si lavorava. Fino a tardi eravamo fuori con le bestie a pascolare, dopo che le ritiravamo stavamo lì un po’ fuori dalla porta a chiacchierare con l’Anna e la Valeria; loro erano lì vicino a noi. Si parlava del più e del meno, qualcosa così: ‘Dove andiamo domani a fare l’erba, cosa facciamo?’.”

 

 

 

Immagini: R. Mortarotti GR: grazia ricevuta, Grossi 1987 e B. Mazzi Pascoli sotto il cielo 2008

 

 

 


Una parola al mese

2. Arsunà

Arsunà era il canto gorgheggiato che le pastore sulle mie montagne usavano per comunicare da un alpeggio all’altro.
Un suono per rompere la solitudine del lavoro in montagna, per chiamare il bestiame, per chiedere aiuto. A Ornavasso si diceva faa yuglo, in Ossola anche yu fi fi. Vocali e consonanti accostate senza un significato: la voce profonda e misteriosa della montagna. Nella Svizzera tedesca e in Tirolo si chiama jodel ed è una forma d’arte con concerti e pubbliche esibizioni. Sui monti della Val d’Ossola era pratica femminile, perché erano le donne a lavorare sugli alpi, mentre gli uomini erano via in emigrazione.
Le pastore della Val Grande, dall’alpe Oro delle Giavine salivano la sera alla Colma Piana per guardare il fondovalle del Toce e le case lontane: in Ossola si accendevano le luci, in Val Grande scendeva il buio.
Da bambino trascorrevo tre mesi all’alpe Sarlede di Ornavasso. La sera, dopo aver raccolto le capre e averle munte, la mamma si sedeva sugli scalini davanti alla baita e faceva yuglo.
In pochi minuti rispondevano voci femminili dagli alpeggi vicini (l’Ultosvendi, lo Steyt, i Trenghi).
La mamma riconosceva le voci delle amiche. Non so cosa volessero dirsi. Forse non lo sapevano neanche loro.
O forse volevano dire che erano ancora vive, che la vita continuava.

La gioia della salita all’alpe (da: B. Mazzi, Pascoli sotto il cielo, 2008)


 

Montagna

3. Il mercante di capelli

L’anno scorso è uscito un libro interessante sui montanari delle valli del basso Piemonte. L’ha scritto Franco Faggiani (Gente di montagna, Mulatero, 2021). Non parla di alpinisti o esploratori, guerrieri o scienziati, ma racconta 35 “storie” di gente comune, storie di lavoro e spesso di sogni infranti. Una di queste è quella di Giovanni Barbero (“Le mani nei capelli”) che nella vita commerciò di tutto: comprava acciughe a Marsiglia, valicava le Alpi e le vendeva nelle città del nord Italia. Soprattutto girava la Val Maira comprando capelli per rivenderli per parrucche signorili. I mariti non erano contenti che le loro mogli vendessero i capelli per cui Giovanni Barbero portava acciughe e bottiglioni di vino agli uomini e fazzoletti di pizzo provenienti da Parigi (?) per blandire le donne. Quando mia moglie mi ha letto questa storia, mi sono ricordato che queste cose accadevano anche nelle mie valli. Sono andato a riprendermi “A piedi nudi” scritto da Nino Chiovini nel 1988, che racconta la storia di Sofia Benzi di Cicogna, morta scalza mentre faceva fieno in un corte sperduto. È una storia vera. Racconta il Nino: “Sofia si stava trasformando in un’avvenente ragazza dai bei capelli castani leggermente ondulati nei giorni di festa, mediante l’artificio dell’acqua zuccherata. I suoi capelli non erano tanto lunghi, perché per la prima volta nel corso dell’adolescenza e per la seconda volta nella prima gioventù, li aveva venduti. Tagliati dall’uomo che una volta all’anno faceva il giro dei villaggi per acquistare i capelli dalle ragazze; li pagava bene, specie quelli biondi; ma quelli delle ragazze di Cicogna erano in prevalenza castani, di qualcuna neri. Più lunghi erano i capelli, più li pagava. Acquistava anche quelli che rimanevano nel pettine dopo la ravviatura: pure quelli venivano conservati. Tutto sarebbe servito per la confezione, da parte di ragazze di città, di parrucche e di capigliature per bambole di lusso, mentre i denari dei capelli servivano alle ragazze di paese per acquistare il primo, e spesso ultimo, tradizionale vestito della festa, ul custùm.”

 

 

Immagini: P. Scheuermeier Il Piemonte dei contadini 1921-1932. Rappresentazioni del mondo rurale subalpino nelle fotografie del grande ricercatore svizzero a cura di S. Canobbio e T. Telmon (Priuli e Verlucca, Regione Piemonte, Università di Torino, 2007).

 

 

 

 

 

 


Personaggi

4. Livia Pirocchi (1909 – 1985)

A Pallanza, sulle rive del Lago Maggiore, c’è un istituto scientifico di importanza internazionale per lo studio della limnologia, la scienza che si occupa delle acque dolci e in particolare dei laghi alpini e prealpini. È l’Istituto Italiano di Idrobiologia (oggi ISRA CNR), fondato nel 1938 da Marco De Marchi. Dopo la laurea a Milano, Livia Pirocchi fu attratta dalle ricerche che Rina Monti conduceva in modo pionieristico sulla biologia degli organismi che popolano le acque lacustri. «L’acqua è fondamentale alla vita» affermava «e per proteggerla bisogna prima conoscerla». Nel 1939 fu chiamata all’Idrobiologico e vi rimase tutta la vita, divenendone direttrice nel 1967, portando l’Istituto ad uno ruolo mondiale. Ricerca scientifica appassionata e civile “per amore” del Lago Maggiore. Aveva sposato Vittorio Tonolli, a cui successe nella direzione dell’Istituto. Condusse studi pionieristici sui laghi alpini della Val Bognanco e l’Istituto permise di salvare il Lago d’Orta, destinato a morte biologica per scarichi industriali, e il Lago Maggiore condannato all’eutrofizzazione. Anche queste sono storie che andranno raccontate.
Così la ricorda Riccardo De Bernardi su “Verbanus” (8/1987): “Di carattere mite ma volitivo e risoluto, aveva un profondissimo, innato senso del dovere che tutto sovrastava e che la portò a vivere la solidarietà costante e concreta verso il prossimo non nella ricerca di riconoscimenti terreni, quanto piuttosto per un appagamento interiore: un «servizio» compiuto in nome di una umanità nella quale credeva e nella quale riponeva fiducia infinita.” Nel 2011, in occasione del 150° dell’unità d’Italia, fu riconosciuta tra le 150 donne che hanno fatto “grande l’Italia”.
Oltre la scienza, la cultura. Quando, agli inizi degli anni ’60 del Novecento, fu posta in vendita la collezione archeologica che Enrico Bianchetti aveva raccolto scavando le necropoli lepontiche di Ornavasso nel 1890-91 (1700 reperti), avrebbe potuto acquistarla chiunque, anche un volitivo petroliere texano ed oggi per vederla avremmo dovuto andare a suonare un campanello a Dallas. Invece i coniugi Tonolli la acquistarono con un cospicuo investimento e la donarono alla città di Verbania che la conservò nel Museo del Paesaggio. Oggi è visitabile in un moderno allestimento presso la sezione staccata del Museo a Ornavasso. I reperti sono tornati a casa grazie ad una donna ed un uomo di scienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

Inaugurazione dell’Istituto Italiano di Idrobiologia, 1940

 


 

Personaggi

5. Maria Peron (1915 – 1976)

C’è una scuola a Verbania, tra il Lago Maggiore e la Val Grande, intitolata ad una donna: la “partigiana disarmata” per libera scelta Maria Peron. Nel 1942 si diplomò infermiera e lavorò all’ospedale Niguarda di Milano dove iniziò la collaborazione con il CLN. Fu scoperta e andò in montagna. Non sparò mai un colpo, ma curò sia i partigiani che pastori e boscaioli, valendosi anche della sua esperienza chirurgica. Era con la formazione Valdossola di Dionigi Superti e organizzò un centro mobile di pronto soccorso sui monti della Val Grande.
Durante il terribile rastrellamento del giugno 1944 seguì la colonna di Mario Muneghina nel tentativo di espatrio in Svizzera. La “lunga marcia” fu fermata a Pian dei Sali in Val Vigezzo e Maria dovette tornare, con un pugno di altri partigiani, a Cicogna dopo due settimane di marce nei boschi braccata dai nazifascisti. Rimase in montagna fino all’aprile 1945.
Si sposò il 15 agosto 1945, nella chiesa di Cicogna, con Laurenti Giapparize, partigiano georgiano, da cui ebbe due figli. Ho verificato che a Maria diedero cinque onorificenze, ma sono cose che vengono dopo! Secondo me il riconoscimento più bello è la semplice targa che la Casa della Resistenza ha posto all’ingresso di Cicogna, per lei e don Fiora, al tempo il parroco del villaggio. Recita: “A ricordo di Maria Peron e del prof. don Antonio Fiora per la loro partecipazione alla Resistenza e per l’aiuto prestato a tutti i valligiani durante la seconda guerra mondiale”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Personaggi

6. Maria Teresa Saglio (1926 – 2018)

La storia di Teresa è quella di una donna che ha lasciato le montagne per andare in Africa, per cinquant’anni ad aiutare una terra povera, rispetto alle Alpi che stavano diventando ricche. Era cresciuta sui monti della Bassa Ossola, tra alpe e campagna.
Poi, come molte ragazze della sua generazione, il lavoro in fabbrica (a “bucare” pietrine per orologi); i primi scioperi maturati nella cultura cattolica della CISL e il licenziamento. Il lavoro come infermiera all’ospedale di Omegna. Poi la svolta, motivata da una profonda fede religiosa.
Ricorda di lei don Dante Carraro, direttore del CUAMM (la prima ONG italiana): “Era partita per l’Africa la prima volta nel 1970, e vi è rimasta con tenacia fino all’età di 91 anni. Andando prima come infermiera volontaria in Uganda e Kenya, poi dal 1977 in Tanzania, si è sempre spesa per dare assistenza e conforto ai bambini malnutriti e alle loro famiglie.
Terminato il servizio come infermiera, ha scelto di continuare a vivere a Tosamaganga, in Tanzania, rimanendo fino all’ultimo il punto di riferimento del ‘Centro training’ del CUAMM. In Africa ha trascorso 48 dei suoi 91 anni.”
In Africa parlava in kiswahili, alla guest house che alloggiava medici e ricercatori in inglese, quando tornava a casa ogni due anni parlava l’aspro dialetto ossolano. Tosamaganga è un villaggio rurale a 1500 m nella Tanzania centrale. Un altipiano tra montagne più alte, quasi un ricordo della terra d’origine.
Un recente libro, in forma di “biografia condivisa”, ne delinea la figura di donna e missionaria laica in Uganda (ai tempi terribili di Amin Dada), Kenya e Tanzania. Il libro lancia un messaggio ai nostri giovani: certe scelte di vita non sono dovute, ma sono possibili.

 

 

Immagini: Gruppo di appoggio CUAMM di Ornavasso

 

 


Libri

7. “Alpeggi delle Alpi”

Ai primi di marzo è uscito un libro che mi è molto caro: “Alpeggi delle Alpi – Alpi e alpigiani in Val d’Ossola” (Grossi Edizioni, Domodossola, 2022). È un libro scritto d’urgenza e in emergenza. L’urgenza è quella di provare a raccontare un mondo che non c’è più: storia e memoria fino a quando ce n’è.
L’emergenza è stata quella della pandemia: chiusi in casa a cercare di fare qualcosa di buono. Se nel precedente “Leggende delle Alpi” (I ed. 2012, II ed. 2021) ho provato a raccontare la mentalità del montanaro ossolano filtrata dal mondo fantastico delle leggende popolari (il confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, la speranza in una vita migliore), in questo ho provato a raccontare la quotidianità della vita materiale che per sette secoli ha segnato la vita di donne e uomini sui monti dell’Ossola.
Sono due libri complementari: il primo narra il modo di pensare, il secondo il modo di lavorare. Oggi l’alpeggio tradizionale è morto, non tanto come luogo fisico ma come luogo culturale. Esistono moltissimi alpeggi in Ossola ancora “caricati”, ma il carico non è più quello delle carovane di mandrie, donne e bambini che salivano in quota agli inizi dell’estate. Oggi il carico avviene con i mezzi fuoristrada e la rivoluzione delle strade di servizio, spesso camuffate da “piste agro-silvo-pastorali”, ha trasformato le antiche baite di pietra in moderne casette intonacate, mentre pochi grandi alpeggi integrano la moderna zootecnia e caseificazione con i servizi ai turisti. Di altri alpeggi, quelli dell’abbandono, rimane solo la memoria. Questo libro infatti non è solo un libro di storia, ma soprattutto di memoria. Raccoglie l’urgenza della mia generazione di non dimenticare. È l’esperienza di vita di molti ossolani che da bambini trascorsero i tre mesi delle vacanze scolastiche all’alpe, a mungere mucche e capre, a raccogliere legna, a tagliare fieno.
Lo scrittore svizzero Plinio Martini in un libro (“Il fondo del sacco”, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 1970) ha per primo raccolto questa urgenza. Racconta la storia di un uomo che abbandona giovane le povere montagne del Ticino per emigrare in America da dove ritorna benestante e solo, con il ricordo di una ragazza lasciata.
“Io a Cavergno sono tornato proprio per quel ricordo, e per levarmelo di testa forse devo parlarne una volta fino in fondo, a cominciare da capo per mettere insieme quello che abbiamo patito qui prima di partire, la nostra vita di allora, le bestie il fieno l’alpe il letame il male di schiena, e poi il buono, perché a essere giusto devo dire che abbiamo avuto anche di quello: forse mi può far bene a vuotare il sacco fino in fondo”. È uno dei grandi temi della letteratura del secondo Novecento (Cesare Pavese ne “La luna e i falò”); la grande domanda irrisolta del migrante (“Ho fatto bene a lasciare questa mia povera terra o avrei dovuto rimanere per renderla migliore?”).
Sono domande che si pone solo chi ha conosciuto il mondo. Questo libro vuole grattare in fondo alla memoria delle genti d’Ossola, ascoltare il ruminìo delle generazioni che per sette secoli hanno vissuto sulle Alpi Pennine e Lepontine e sulle “terre di mezzo” affacciate al Lago Maggiore.
È necessario raccontare tutto questo ai nostri giovani, impegnati in sfide di dimensioni nuove, per capire come eravamo e come siamo oggi