Paolo Crosa Lenz       Lepontica/13      Novembre 2021

 

Sommario
1. Elogio del larice
2. Scoperto il dragone spettro in Val Grande
3. 1945 – 2000: i 75 anni del CAI Pallanza
4. Nuovi scavi alle necropoli di Ornavasso
5. Muri e mura
6. Ferdinando Danini (1947 – 2021)
7. Franco Movalli (1928 – 2021)

 


 

Natura

1. Elogio del larice

Il larice è il “signore dell’autunno” sui monti dell’Ossola e il suo tempo è arrivato. Tra la fine di ottobre e i primi di novembre, gli aghi dell’albero diventano prima rossi e poi gialli finché cadono dispersi dal vento.
Ho amici che portavano ogni anno i figli piccoli a ricevere la “benedizione del larice”: salivano a Devero o Veglia, sedevano i bambini sotto un giovane larice e ne scuotevano il tronco flessibile; i piccoli ridevano felici sotto quella pioggia di aghi gialli e morbidi.
Oggi quei bambini sono diventati grandi, ma i loro figli riceveranno la “benedizione del larice”.
Il larice è infatti l’unica conifera che perde gli aghi in inverno, una forma di adattamento (come la corteccia molto spessa e i rami flessibili) al clima dell’alta montagna e ai suoi rigidi inverni. “È un albero “estremo”, superspecializzato all’ambiente severo dell’alta montagna, così come per la storia degli uomini sono stati i colonizzatori medioevali (tra di loro i walser) che seppero adattarsi alla severità dei monti diventano anch’essi superspecializzati. È infatti il legno di larice, “albero maestro” dell’economia alpina, il materiale primario per costruire le pareti di case e fienili, mentre i grandi tronchi sostenevano le coperture in pietra dei tetti. Per questo il larice è un po’ l’albero simbolo dei parchi naturali dell’Ossola.
Il larice (Larix decidua) è un albero pioniere che riesce a crescere su detriti e ghiaioni e colonizza i pascoli abbandonati. Cresce tra i 1600 e i 2200 m e sulle Alpi costituisce il limite estremo della foresta in montagna. L’associazione forestale più diffusa all’alpe Devero, in Veglia e in Antrona è quella dei grandi lariceti subalpini, radi e luminosi, con sottobosco a mirtillo e rododendro (rodoreto-vaccinieto, climax degli spazi aperti sui 2.000 m). Alcuni lariceti attorno agli alpeggi sono stati diradati dall’uomo per ottenere il pascolo alberato. Il larice è un albero longevo: i grandi larici nella piana dell’alpe Veglia hanno più di cinquecento anni. Il lariceto di fronte a Simplon Dorf, nella valle del Sempione, è riconosciuto come foresta nazionale svizzera. Quando quegli alberi erano giovani, Carlo Magno si incoronava imperatore e quando erano grandi Cristoforo Colombo scopriva l’America. Quando i miei figli erano piccoli e andavamo all’alpe Crampiolo da Devero, passavamo da una radura con grandi larici monumentali; assegnarono ad ogni larice il nome di un nonno o uno zio che non c’erano più. La battezzarono “la piana degli antenati”.
Quasi gli alberi avessero un’anima

 


 

Natura

2. Scoperto il dragone spettro in Val Grande

Continuano le scoperte naturalistiche in Val Grande.
Il Parco Nazionale, scrigno di biodiversità nella casa comune di cui tutti dobbiamo prenderci cura, rivela ancora una volta il suo prezioso ruolo per la ricerca scientifica.
Dicono dal Parco: “Dopo la falena che si finge vespa, è stata infatti osservata per la prima volta Boyeria irene, una grande libellula di colore verde-grigiastro. Il nome comune ‘dragone spettro’ le è stato dato sia per la sua colorazione mimetica, sia per le sue abitudini crepuscolari che la rendono una libellula difficile da osservare.
La specie è presente in Europa occidentale e Africa magrebina, mentre in Italia è segnalata per le regioni tirreniche, il Piemonte, la Lombardia e l’Emilia Romagna, dove frequenta corsi d’acqua con rive ombreggiate, dal livello del mare agli 800 m di quota.”
Il naturalista Andrea Mosini l’ha rinvenuta per la prima volta nel VCO.
In Val Grande Boyeria irene si aggiunge alle venticinque specie di libellule già censite intensivamente nel 2016.
I risultati della ricerca, pubblicati di recente sulla rivista scientifica “Fragmenta Entomologica”, rivelano che la Val Grande, grazie alla posizione geografica tra le Alpi e la regione insubrica, alle elevate precipitazioni e all’orografia complessa, ospita una ricca diversità di libellule: le specie costituiscono infatti il 27% di quelle presenti in Italia, il 38% di quelle piemontesi e il 59% di quelle della provincia del VCO.


 

Alpinismo

3. 1945 – 2000: i 75 anni del CAI Pallanza

Il 1° agosto 1945, con la guerra finita da tre mesi, nasceva sulle rive del Lago Maggiore la sezione di Pallanza del Club Alpino Italiano. La stessa cosa accadde, in un breve volgere di anni, in altri luoghi della mia terra (a Omegna, Gravellona Toce, Baveno, Villadossola…). Così in altre parti d’Italia. La costituzione di una sezione CAI divenne simbolo della rinascita di un paese ad una vita nuova, la Repubblica come nuova forma di partecipazione collettiva, l’andare in montagna come momento di gioia e di nuove amicizie dopo le divisioni laceranti e la fatica dolorosa della Resistenza.
Sulle montagne si sentivano i cori alpini e non più (erano passati solo tre mesi!) il crepitio dei mitragliatori.
Il 15 giugno 1945, un mese e mezzo dopo la fine della guerra, venne diramato: “Ai simpatizzanti del sano sport della montagna, l’invito a partecipare alla prima gita sociale a Ompio e Sassorotto”. La seconda sarà il 22 luglio al Monte Massone. La terza il 4 agosto al Monte Capezzone. Questa vale la pena di raccontarla. Sono in dieci e partono
a mezzanotte da Pallanza in bicicletta alla volta di Omegna ma: “Giunti in prossimità delle rive del lago d’Orta, un banale incidente alla bicicletta di una gentile partecipante bloccò la marcia per ben due ore.” La bici viene riparata e tutti salgono a Forno dove lasciano il “mezzo” e a piedi raggiungono Campello Monti quindi la vetta del Capezzone. Duemila metri di dislivello, 30 km in bicicletta, undici ore (meno due di sosta per riparare la bicicletta). Un’ora in vetta poi a rotta di collo fino a Forno, “lauto pranzo” all’albergo “Del Leone” e alle 20 sono tutti a Pallanza. Questo era il Club Alpino Italiano di quegli anni.
Un CAI per la nuova Italia. Un amico e raffinato ricercatore, Leonardo Paracchini di Verbania, ha scritto un libro per raccontare “75 anni di storia e storie”.
Una considerazione storica. I dirigenti CAI di prima generazione, quella risorgimentale della seconda metà dell’Ottocento, contribuirono a costruire l’identità di una nazione, furono un centro propulsore per “fare gli Italiani”, secondo il dettato di Cavour e Quintino Sella. I dirigenti CAI di seconda generazione contribuirono a costruire l’Italia repubblicana e a trasformare il CAI da Club elitario a sodalizio di massa. Quale il compito della “terza generazione”, quella degli anni Duemila? Sono convinto che chi venne prima seppe svolgere con dignità, lealtà e proficui risultati per tutti il compito assunto.
La “terza generazione” dovrà contribuire a traghettare l’Italia verso la transizione ecologica, continuando ad andare in montagna ma rispettando l’ambiente. Un compito arduo in tempi di repentini cambiamenti climatici e di Alpi spesso assaltate da spregiudicati e devastanti progetti speculativi. Sapremo essere all’altezza delle generazioni precedenti?
9 giugno 1946: inaugurazione del gagliardetto sociale del CAI Pallanza

 

 


 

Archeologia

4. Nuovi scavi alle necropoli

Buone notizie per l’archeologia alpina, in anni fecondi che vedono una ripresa delle ricerche e risultati che offrono nuove conoscenze sulla presenza antica degli uomini sulle Alpi.
A San Bernardo di Ornavasso, dove oggi sorge un oratorio campestre abbandonato, duemila anni fa una comunità di Leponti (i primi abitatori di queste terre) organizzarono una necropoli che documenta una civiltà ricca e raffinata precedente la romanizzazione e i cui reperti sono visibili nelle sale espositive nel municipio del paese. La scoperta degli antichi “sepolcreti”, scavati dallo storico Enrico Bianchetti nel 1890-91, permise la nascita dell’archeologia celtica in Italia e furono importanti perché rivelarono come, prima della romanizzazione, esistesse sulle Alpi una civiltà ben organizzata e con caratteri culturali propri.
Le necropoli scavate furono due: San Bernardo (II-I secolo a.C.) e In Persona (I secolo a.C. – I secolo d.C., con ripresa nel V sec. d.C.).
Enrico Bianchetti scavò 165 tombe a San Bernardo e altre 165 a In Persona.
Nel 1941 e nel 1952 la Soprintendenza Archeologica del Piemonte proseguì gli scavi a San Bernardo all’interno e intorno all’oratorio, identificando altre 16 tombe e portando a 346 il totale delle sepolture indagate.
La scorsa estate una nuova campagna di scavi a In Persona, condotta dall’Università Cattolica di Milano, ha consentito di individuare sei tombe già in
dagate da Bianchetti, ma anche tre nuove sepolture, alcune già violate.
Da queste sono state finora recuperate, oltre a un vaso intero e alcuni frammenti di altri, due monete di bronzo e una d’argento.
Uno degli obiettivi della nuova campagna di scavi è stato la puntualizzazione del posizionamento delle tombe già scavate da Bianchetti e la relativa georeferenziazione, tramite strumenti di misura digitali (Total Station) e GPS.
Le tombe consistono per lo più in fosse rettangolari scavate nel terreno sabbioso e delimitate sui lati da pietre a profondità comprese tra 1 e 2,5 m.
All’interno era deposto il cadavere (le cui ossa non si sono conservate) con alcuni oggetti di corredo.
Nel 2020 l’Università di Gand in Belgio aveva condotto indagini non invasive (prospezioni magnetometriche e georadar) che avevano rilevato la presenza di una serie di anomalie nelle aree degli antichi sepolcreti.


 

Storia

5. Muri e mura

Settecento anni fa Domodossola fu cinta da mura: un pentagono che avrebbe difeso la libertà e l’indipendenza del borgo.
Di quelle mura rimane poco se non la “Torretta” di Domodossola. Il Vescovo di Novara non le voleva per affermare il suo controllo feudale, ma i domesi, tra il 1303 e il 1321, costruirono le “mura”. Ne seguirono vicende giudiziarie che oggi farebbero sorridere, ma costituiscono elemento identitario.
Pochi decenni dopo, con i “patti deditizi” del 187, la nobiltà di Domodossola (non il popolo che allora non esisteva!) decise di “scaricare” il Vescovo e “dedicarsi” al Ducato di Milano (una “soggezione” durata quasi quattro secoli, fino al 1743).
La ricorrenza viene ricordata a Domodossola in tre modi – l’esposizione in Collegiata dei documenti processuali (1318-1321) costituiti da 24 metri di pezze di pergamene unite, pagina per pagina, da filamenti di canapa suddivisi in tre rotoli. L’amico Enrico Rizzi, uno dei più importanti storici delle Alpi, ha curato un libro di commento pubblicato dall’Associazione Ruminelli. Maria Vittoria Gennari, maestra di Val Vigezzo, e Sergio Franzini, raffinato disegnatore storico, hanno pubblicato un agile libro per le scuole primarie che racconta questa storia di antiche libertà.
Una considerazione mi urge. Un muro è un muro, sassi impilati un tempo e oggi cemento triste. Può essere alto o basso, largo o stretto, ma sempre muro rimane. Settecento anni fa un muro (“le mura”) furono simbolo di libertà e indipendenza, oggi sono simbolo di divisione. Un tempo difendevano la dignità dell’uomo, oggi la offendono. Siamo fortunati in Italia, perché non si possono costruire muri sul mare!


 


 

Personaggi

6. Ferdinando Danini(1947 – 2021)

Ferdinando Nando Danini. Era la guida alpina della Val Grande ed erede orgoglioso di una tradizione storica di guide valligiane che ebbe inizio a fine Ottocento con Giacomo Benzi, guida del CAI Verbano Intra che realizzò il Sentiero Bove e il rifugio alpino della Bocchetta di Campo di fronte alla Cima Pedum.
Era nato ed è vissuto a San Bernardino Verbano, una delle “porte” meridionali della Valgrande, ai piedi di quei monti coperti di boschi che sarebbero stati il suo terreno di elezione per una vita dedicata alla montagna.
Negli anni ’70 del Novecento fu tra i protagonisti della grande stagione delle “prime invernali”: nel 1971 (26-28 dicembre) l’epica avventura al Pedum con Gian Paolo Bogo, storico gestore del rifugio del CAI Pallanza all’alpe Ompio sulle pendici del Monte Faiè.
Il Pedum non è alto (2011 m), ma è fuori dal mondo. Anche oggi.
I due alpinisti impiegarono 6 ore per salire le poche centinaia di metri della parete est, ma 12 ore per l’avvicinamento e poco meno per il ritorno.
Nel 1972 (19-21 dicembre) il Nando realizzò il capolavoro della prima invernale alla Punta Zumstein con Gianpaolo Bogo, Adriano Gardin, Achille Montani.
Era rimasta l’ultima vetta ad essere inviolata in inverno sulla parete est del Monte Rosa. Un’impresa da grande alpinismo classico.
Il Nando è stato grande uomo di Soccorso Alpino: fondatore della stazione “Valgrande” del CNSAS e per molti anni responsabile con all’attivo interventi complessi e sempre riusciti.
Tutti gli uomini di montagna gli riconoscono il merito di una grande amore per la Val Grande che negli anni ’90 furono istitutivi del Parco Nazionale.
Una terra ancora in gran parte sconosciuta che il Nando contribuì a far conoscere e valorizzare grazie al suo grande carisma.
Noi giovani lo chiamavamo affettuosamente e con grande rispetto “la guida apache” per la sua capacità di sentire il vento, individuare una traccia di sentiero, il passaggio di qualcuno da un ramo spezzato.
Quando lui parlava, noi stavamo zitti.
La sua attenzione alla memoria storica della Val Grande (la preziosità di un labile toponimo o una storia di vita dimenticata) contribuì a costruire l’identità antropologica della valle.
Lo incontrai anni fa ad Ompio, dove aveva “casa d’alpe”: stava aggiustando un ponte su un ruscello. Mi fermai ad aiutarlo: io tenevo il palo e lui picchiava di mazza. Parlammo come sempre di salute dei sentieri e di ingenuità degli escursionisti, della necessità di continuare a curare i nostri monti.
Gli brillavano gli occhi.
Nando fotografato per il numero di Meridiani Montagne dedicato alla Val Grande, mostra corda e moschettoni utilizzati per la prima salita al Pedum del 1971

 

 


 

Personaggi

7. Franco Movalli (1928 – 2021)

È mancato lo scorso ottobre Franco Movalli, era stato il medico condotto di Baveno per una intera vita, ma soprattutto per 23 anni presidente della sezione di Baveno del Club Alpino Italiano. Il Franco aveva 18 anni quando, il 27 novembre 1946, venne fondata la sezione.
Prese la tessera CAI e la tenne sempre, maturando in quegli anni di rinascita e di riscatto del nostro paese, il riconoscimento di un ruolo dirigenziale nel sodalizio.
Era l’ultimo rimasto di una generazione di uomini CAI (Franco Mazzucchelli, Roberto Clemente, Giacomo Priotto e molti altri) che nel Verbano consolidò e fece crescere il sodalizio alpinistico.
Con il suo contributo, assieme a tanti come in ogni associazione, venne inaugurata nel 1968 la sede sociale: la “casa alpina” per gli amanti della montagna. Agli inizi di quel decennio contribuì all’organizzazione del raggruppamento delle sezioni CAI “Est Monterosa”. Fu un’esperienza pionieristica in Italia che oggi è realtà ripresa in tante regioni. Da quarant’anni il CAI Baveno rivolge un’attenzione particolare all’alpinismo giovanile rivolto ai ragazzi dagli 8 ai 17 anni.
Buon alpinista e fino alla vecchiaia escursionista appassionato, aveva guidato la sezione al raggiungimento del prestigioso traguardo nel 1992 dell’inaugurazione della baita sociale all’Alpe Nuovo alle pendici del Mottarone, la “montagna tra i due laghi” (il Lago Maggiore e quello d’Orta).
Diventammo amici incontrandoci in montagna e nelle riunioni del CAI.
Voglio ricordarlo con un’immagine di oltre quarant’anni fa.
Era domenica sull’immensa morena del ghiacciai d’Aletsch, il più grande delle Alpi.
Con un amico tornavo scornato dal tentativo d’ascensione di una cresta dell’Oberaletesch Fletchorn (il nome della montagna era lungo come l’avvicinamento al rifugio). Non esistevano cellulari, né previsioni meteo attendibili e fruibili (se non la mitica “Svizzera”).
La mattina pioveva e ritornavamo nella nebbia, fra i blocchi della morena vedemmo avanzare quasi indistinti alcuni alpinisti. Li guidava Franco Movalli e discutemmo di chi fosse la colpa di quel brutto tempo!